sabato 6 ottobre 2018

Draghi incontra Mattarella, l’Italia rischia la Troika. Ma il governo può sfruttarla a proprio favore

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 5 ottobre 2018 
Mario Draghi incontra Sergio Mattarella, è preoccupato. Il presidente della Bce dice al presidente della Repubblica che le manovre messe in campo dal governo Lega-M5s possono provocare dure reazioni da parte dei mercati e un giudizio negativo delle agenzie di rating, in un momento in cui i rubinetti del Quantitative Easing stanno per chiudersi. A questo punto, afferma Draghi, l’unica opportunità di sostegno per l’Italia da parte della Banca centrale europea è l’Omt.
Ricordate? Forse no, perché purtroppo gli si è data poca importanza. L’Omt è la possibilità concessa agli Stati di potere ottenere un aiuto dalla Bce sotto forma di acquisto illimitato di titoli pubblici sul mercato secondario, cosa che effettivamente garantirebbe il Paese in difficoltà. Ma c’è un “cavillo”, per così dire: lo Stato che viene “aiutato” deve farsi commissariare dalla Troika, più amichevolmente presentata come “fondo salva-Stati”. Cosa vuole la Troika? Esattamente quello che vogliono i mercati: riforme di austerità, ciò che i cittadini hanno rispedito al mittente votando Lega e M5s.
Il “cavillo” però ha qualche problemino. L’Omt – annunciato ma mai attuato – è stato infatti oggetto di scontro tra la Bce e la Germania, la quale sostiene che mediante questo strumento la Banca centrale europea viola i trattati (la Bce non può finanziare i bilanci degli Stati). Il conflitto ha messo in fibrillazione l’Eurozona, poi disinnescato nel 2016 dalla sentenza della Corte costituzionale tedesca, che ha assunto toni più moderati rispetto all’ordinanza di rinvio che aveva al contrario una forte impronta sovranista.
I tedeschi restano scettici (non vogliono pagare i debiti degli altri, dicono loro) e la “pace” giuridica tra i giudici di Bruxelles e i giudici tedeschi rimane comunque precaria, perché nella pratica il piano non è mai stato attuato, dunque gli effetti reali sui conti non sono noti. Tra l’altro, la Corte costituzionale tedesca ha già riproposto il problema della indipendenza della Bce per quanto riguarda l’uso del QE. I nervi sono tesi e in qualche modo si vorrebbe passare la palla all’Italia. È possibile che con il nostro Paese Draghi voglia dimostrare alla Germania che l’Omt è sostenibile, ma questa sostenibilità significa più austerità per l’Italia, con buona pace per la democrazia.
Una strada non facile ma percorribile per questo governo, se vuole essere veramente alternativo è quello di creare le condizioni affinché lo scontro tra la Bce e la Germania si riaccenda. Si potrebbe, ad esempio, attendere che i mercati e le agenzie di rating creino tensioni, mostrarsi disponibili al sostegno della Bce ma senza che venga violato il mandato elettorale, cioè senza accettare di cambiare la manovra. A questo punto entrerebbe quasi certamente in gioco la Germania con i suoi “no” e la bravura del governo dovrebbe essere quella di fare in modo che emergano tutte le contraddizioni di un sistema di regole che non regge più. Basti solo pensare che proprio la Germania si è avvantaggiata del “fondo salva-Stati” (Mes o anche come già messo in evidenza Troika) con cui, per dirne una, ha infranto il principio di uguaglianza con gli altri Stati.

Zonaeuro | 5 ottobre 2018

mercoledì 3 ottobre 2018

Jobs act, il criterio di indennizzo è incostituzionale. Così crolla uno dei pilastri della riforma Renzi

Fonte: Il Fatto Quotidiano Lavoro & Precari | 3 ottobre 2018  di Enzo Martino (Avvocato giuslavorista, sono uno dei soci fondatori di “Comma2, lavoro è dignità”. Da numerosi anni opero a Torino in difesa dei diritti dei lavoratori.)

Il 25 settembre la Corte costituzionale ha deciso la questione relativa alla disciplina dei licenziamenti in regime di Jobs Act sollevata dal Tribunale di Roma. La motivazione della sentenza sarà pubblicata nelle prossime settimane, ma dal comunicato stampa ufficiale già si comprende che si tratta di una decisione di grande portata. La Consulta ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, emanato in attuazione del Jobs Act e regolante il cosiddetto contrattoa tutele crescenti”.
La questione stava in questi termini. Con il decreto legislativo n. 23/2015, il governo Renzi aveva abrogato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per tutte la lavoratrici e i lavoratori assunte/i con contratto a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015. Dopo questa data, la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo è stata sostituita (salvo rari casi) con una modesta indennità risarcitoria, che va da un minimo di quattro a un massimo di 24 mensilità, agganciata esclusivamente all’anzianità di servizio (due mensilità ogni anno).
L’indennità in questione era stata poi aumentata dall’attuale governo del 50% nel cosiddetto decreto dignità, passando così a sei mensilità nel minimo e 36 nel massimo: misura del tutto insufficiente non soltanto perché non aveva rimesso la reintegrazione al centro del sistema, ma anche dal punto di vista della sua adeguatezza economica, in particolare per coloro che vantano una modesta anzianità. Ciò perché l’aumento del massimo dell’indennità, in virtù del meccanismo di calcolo legato alla mera anzianità, avrebbe iniziato a operare solo dal 2027 (il massimo di 36 mensilità sarebbe stato raggiunto addirittura solo a partire dal 2033).
La Corte interviene ora su un punto non toccato dal decreto dignità e cioè quello della predeterminazione rigida dell’indennità risarcitoria, riattribuendo al giudice il potere di stabilire il risarcimento tra il minimo e il massimo di legge, in base a parametri anche diversi dalla mera anzianità di servizio. Attendiamo la motivazione per avere indicazioni più precise dalla Corte, ma è facile immaginare che gli altri parametri potrebbero essere individuati nell’entità del danno subito dal lavoratore, nella dimensione dell’impresa, nella gravità dell’inadempimento datoriale e in generale nel comportamento delle parti (principi in parte già contemplati dai commi V e VII dell’articolo 18, ancora in vigore per i vecchi contratti, che potrebbero essere utilizzati in via analogica.
Sono già invece esplicitati nel comunicato i profili di illegittimità costituzionale accolti dalla Consulta: oltre all’articolo 4 Cost. (effettività del diritto al lavoro riconosciuto dalla Repubblica), anche gli articolo 24 Cost. (diritto ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti), 35 Cost. (tutela del lavoro in tutte le sue forme) ma anche, e forse soprattutto, i fondamentali principi di ragionevolezza e di uguaglianza, principi che implicano non soltanto di non trattare in modo differenziato situazioni eguali, ma pure di non trattare in modo uniforme situazioni fortemente differenziate (i licenziamenti non sono infatti tutti identici né nei presupposti né nelle conseguenze).
Pur avendo la Corte disatteso altri profili di sospetta illegittimità (principalmente la disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti), la riattribuzione al giudice della possibilità di esercitare la sua funzione con riferimento al caso concreto, senza essere più schiacciato in una mera applicazione ragionieristica delle sanzioni, costituisce un risultato di grandissima importanza, perché scardina uno dei pilastri della filosofia del Jobs Act.
Viene infatti dato un colpo mortale alla teoria del “firing cost” (costo del licenziamento), secondo la quale l’impresa deve conoscere in anticipo il prezzo da pagare per liberarsi di un dipendente. Come ha efficacemente scritto il professor Luigi Mariucci, è stata cancellata una norma in evidente contrasto anche con i principi del liberalismo classico, ispirata com’era ai “canoni predicati da quella scuola cosiddetta di ‘law and economics‘ che suggerisce di applicare al diritto del lavoro gli stessi criteri su cui si fondano gli scambi commerciali. Come se il lavoro fosse, appunto, una semplice merce da trattare, sul libero mercato, come tutte le altre merci”. È una scossa a tutto il sistema, che dovrebbe indurre il legislatore ad intervenire nuovamente in materia di licenziamenti: si riapre dunque una partita che sembrava perduta, quella sull’articolo 18. E ciò, di questi tempi, non è davvero poca cosa.

martedì 2 ottobre 2018

Def, e se il deficit/pil al 2,4% funzionasse davvero?

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 30 settembre 2018 

Il rapporto deficit/pil al 2,4%: e adesso “deve” andare male. Malissimo. Preferibilmente deve succedere come in Grecia. Tempesta finanziaria, bancomat chiusi, e Conte che, alla fine, in un consesso europeo lasci la giacca sulla sedia dicendo, prendetevi anche questa, ma poi uscendo torni a casa dai suoi a dire hanno vinto loro. In via subordinata come in Argentina, ma l’ideale sarebbe il Venezuela. Cacciati dalla comunità internazionale, con i fondi avvoltoio appollaiati sullo spread, fuori dall’Unione europea, uno stato canaglia.
Perché bene non “può” finire. Non “può” nemmeno finire mediocremente, uno zero a zero. Altrimenti che figura ci fanno? Tutte le catastrofi che vedete elencate sulle prime pagine dei giornali non sono circostanze da scongiurare, sono appuntamenti che gli autori si augurano di poter verificare, una per una, e rapidamente perché non è vero che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. Metti che non succede niente, metti che qualcosa davvero funziona, poi come si fa? Metti che il project fear, che ha fallito così clamorosamente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna debba fallire pure da noi?
Che si scopra che due anni dopo la Brexit  la Gran Bretagna non è alla fame, in cerca della sua Marmite perduta, ma è un paese più o meno come prima, con la sua piena occupazione e le sue ingiustizie sociali, con i suoi leader litigiosi e incapaci di trovare la rotta, un po’ come la Merkel dopo il voto di settembre, o come il deus ex machina Macron che piagnucola “aiutatemi” al 68% di francesi che lo trova scarsino come Presidente.
E sì, lo sappiamo il peggio deve ancora arrivare per la perfida Albione, l’Europa sta facendo di tutto per prepararglielo, ma insomma, in attesa di Keynes, a Londra vige Mark Twain: la catastrofe del 2016 era fortemente esagerata. Ecco, metti che nel 2020 l’Italia sia ancora più o meno in piedi, meglio comunque del ponte di Genova. Che qualcosa sia rimasto qui, non come Fiat, Versace e Candy per dire. E come li si giustifica i titoli delle ultime 48 ore? Sapete le previsioni economiche sono come quelle del tempo. Scientifiche ma non infallibili. Ora chi aveva più o meno previsto come sarebbero andate le cose dopo il 2011 e lo ha scritto, ha tutto il diritto di dire, avete visto.
Mentre chi ci ha raccontato che andava tutto bene madama la marchesa il suo destino politico lo ha incontrato il 4 marzo. Prendete il temutissimo Bagnai, andate sul suo blog Goofynomics, cercate il primo post in assoluto, novembre 2011, I salvataggi che non ci salveranno. Diciamo che se quando non sei “nessuno” azzecchi la diagnosi e indovini la prognosi, poi ti può capitare di esercitare la cura a scapito di chi, titolatissimo allora, sbagliò diagnosi, prognosi e cura. Ma il problema è che sono proprio gli stessi che oggi, volgendo le spalle ai cadaveri allineati, brandiscono il dito indice elencandoci diagnosi e prognosi della nuova malattia. Per dire, abbiamo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.
Ormai insieme a Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart sono un modo di dire. Gli studi sull’austerità espansiva e sul livello di debito che innesca i problemi economici sono in economia come la concezione tolemaica. Gente che ci ha insegnato che il Sole ruota attorno alla Terra, e che vorrebbe essere messo a capo della missione su Marte. I due hanno il coraggio di dire che ci sono valanghe di dati che dimostrano che il taglio delle tasse ha moltiplicatori maggiori della spesa pubblica per la crescita. Sì, come ci sono valanghe di dati perfino del Fondo monetario internazionale che dimostrano che le vostre idee di quegli anni erano palle e che, avendo dato voi la rotta avete distrutto interi paesi.
Oppure c’è lo stuntman Maurizio Martina, incaricato di sbattere contro gli spigoli in attesa che l’Attore possa declamare la sua battuta. “Mettono cento miliardi di debito sulle spalle dei giovani in tre anni”. Quando Enrico, morire per Maastricht, Gianni Letta prese la campanella il debito italiano era di 2107 miliardi. E Il conte Paolo Gentiloni, passando per il Bomba, ha lasciato a Conte 2302 miliardi, che fanno 195 miliardi in cinque anni. Le misure del nuovo governo, possono e debbono essere contestate nel metodo e nel merito. Alcune saranno utili, altre inutili, altre dannose, come tutte le politiche economiche. Moltissime di loro, per quel che vale, non mi piacciono. Ma se la mettete giù così o arriva la grande Catastrofe oppure sono guai.

Economia & Lobby | 30 settembre 2018

lunedì 1 ottobre 2018

Commissione Ue pronta a bocciare manovra, pressing su deficit/Pil

Fonte: W.S.I. 1 ottobre 2018, di Mariangela Tessa

La Commissione europea è pronta a bocciare la manovra del governo italiano a novembre e ad aprire “una procedura sui conti verso febbraio”.
Lo scrive oggi il quotidiano la Repubblica aggiungendo che il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, subirà “una forte pressione affinché almeno provi a cambiare i numeri del deficit”, indicato al 2,4% dal 2019 al 2021.
Segnali dei primi contrasti con Bruxelles erano d’altronde emersi già all’indomani dell’accordo sul DEF. Venerdì scorso Pierre Moscovici,  commissario agli Affari economici, in un’intervista a Bfm Tv e Rmc Info aveva messo in guardia Roma, affermando:
“Se gli italiani continuano a indebitarsi, cosa succede? Il tasso di interesse aumenta, il servizio del debito diventa maggiore. Gli italiani non devono sbagliarsi: ogni euro in più per il debito è un euro in meno per le autostrade, per la scuola, per la giustizia sociale. Non abbiamo alcun interesse ad aprire una crisi tra l’Italia e la Commissione, ma non abbiamo neanche interesse a che l’Italia non riduca il suo debito pubblico, che rimane esplosivo“.
Il primo banco di prova arriverà tra oggi e domani quando Tria sarà in Lussemburgo per le riunioni mensili di Eurogruppo ed Ecofin.
Anche se la nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza non sarà ancora sul tavolo dell’Eurogruppo alla riunione di oggi in Lussemburgo, a Bruxelles viene dato per sicuro che se ne parlerà comunque, a margine dei lavori, e soprattutto sarà questa la prima occasione per il ministro italiano dell’Economia, Giovanni Tria, di parlarne a quattr’occhi con il commissario Ue agli Affari economici, Pierre Moscovici, e con il vicepresidente della Commissione per l’Euro, Valdis Dombrovskis.
L’intenzione dichiarata dal governo di lasciar aumentare il rapporto deficit/Pil nominale fino al 2,4% (invece dell’1,6% che sarebbe andato bene alla Commissione europea e che Tria avrebbe voluto mantenere nella “nota”), è stata naturalmente vista da Bruxelles come un tentativo di sottrarsi, almeno in parte, alle regole dell’Eurozona; anche se il vicepremier Luigi Di Maio si è affrettato chiarire di non volere lo scontro ma il dialogo con la Commissione, guardiana di quelle regole.

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