sabato 1 ottobre 2016

Hillary, i muscoli, la politica post fattuale

Poche cose mi inquietano come il sospiro di sollievo unanime di ieri: quando tutti hanno detto “ha vinto Hillary, ha vinto Hillary”.
Poche cose mi inquietano così perché le attribuzioni di vittoria che ho letto si basavano tutte sulle argomentazioni, sui ragionamenti: nei quali in effetti, con la sua consueta lucidità, la candidata democratica ha sbaragliato il suo caotico avversario.
Tuttavia mi sono immaginato una birreria di Cincinnati, di quelle con i trespoli davanti al bancone e la tv attaccata al muro: dove la gente ascolta distrattamente o non ascolta per niente, ma in compenso guarda le facce, le espressioni, i linguaggi del corpo, le rigidità, insomma il cosiddetto paraverbale: chiedendomi chi ha vinto, davvero, per loro.
E mi sono immaginato quelli che, come in Will & Grace, votano a seconda di come un candidato indossa i pantaloni («I don’t like that she wears pants») – e alla fine si convincono per motivi tutt’altro che politici («Katy Perry likes Hillary»): chiedendomi quanto abbiano pesato le argomentazioni, alla fine di quel dibattito, e quanto invece elementi emotivi che sfuggono ai “fact checker” del New York Times così come ai sondaggi su “chi vi ha convinto di più”.
Sì, lo so, la questione è tutt’altro che nuova: c’è chi la fa risalire alla famosa barba mal rasata di Nixon nel 1960, molto tempo dopo in Italia Enrico Deaglio ha disvelato gli effetti della luccicante “spilla acchiappa-burini” esibita da Berlusconi in tivù nel ’94, ancora dopo Marco Belpoliti ha scritto ottimi libri sul “corpo dei politici”.
Ma c’è qualcosa di più, nel 2016, rispetto al passato, ed è quello che va ripetendo Zygmunt Bauman: la sensazione diffusa che la rappresentanza democraticamente eletta non serva a niente, cioè che non decida. Che non abbia più gli strumenti per decidere, perché le vere scelte che impattano sulle nostre vite avvengono altrove. Avvengono in poteri (o in dinamiche di mercato, in algoritmi di Borsa) che nessuno ha eletto.
Se la sensazione è questa, non c’è ragionamento che tenga. Non c’è argomentazione che tenga. Perché dopo, una volta eletti, ogni proposito politico è inutile, ogni esperienza o capacità è nulla o quasi. E allora tanto vale votare per come si indossano i pantaloni, o secondo la preferenza della nostra cantante preferita. O, ancor più, per come si esprime potenza: e chissà mai che quella potenza, quella tracotanza non possa riuscire laddove la politica razionale non riesce, non fa. Chissà mai che quella muscolarità non riesca a competere con i poteri invisibili e gli algoritmi della finanza.
Ecco: si parla molto della “post-truth politics”, da quando David Roberts inventò questo neologismo e ancor più da quando i cittadini del Regno Unito hanno votato per la Brexit su basi emotive anziché per argomentazioni basate sui fatti.
Ma non credo che per uscirne basti vituperare gli elettori, agitare lo spauracchio del populismo (o, nel caso americano, prendere in giro gli “unemployed, uneducated angry white men”).
Si tratta invece di restituire alle persone la fondata percezione che chi argomenta razionalmente, poi, altrettanto efficacemente possa agire nell’interesse dei molti. Non chi si mostra più forte, ma chi ha più argomenti, più conoscenza, più visione.
Altrimenti non c’è più nemmeno la politica mediatizzata: resta solo la pancia, la potenza – e vince chi è più bravo lì, senza traccia d’altro.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it
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in realtà una cosa che nessuno, o pochi dicono, Trump è piaciuto soprattutto al popolo della rete, e non sono pochi lì negli USA, ed eai ceti meno abbienti... a me, come ho già detto in passato, fra i due preferisco il repubblicano non foss'altro perchè presenta proprio quei tratti populistici che l'altra non ha ma che usa: inoltre la Hillary è espressione di quella finanza di rapina che tiene in mano l'intero pianeta con le sue speculazioni mentre l'altro è stato, e forse è, un traffichino e questo mi ricorda qualcosa proprio in Italia.... inoltre la 'signora' arriva dopo l'autunno di Obama, molto triste in verità, ma con chiaro un disegno: aprire il fronte arabo come burro e rendere Siria ecc. com'è oggi l'itraq: un vero incubo per quanto mi riguarda visto che farà aumentare esponenzialmente il terrorismo internazionale.. o è proprio questo che vogliono?

giovedì 29 settembre 2016

.... quello che le 30 slide di Renzi non dicono (Chiara Brusini)

02/09/2016 di triskel182
Il premier ha scelto accuratamente i numeri da usare per raccontare agli italiani, in occasione dei suoi primi 30 mesi a Palazzo Chigi, “come stavamo prima dell’arrivo del nostro governo” e “come stiamo adesso”. Nessun cenno all’aumento del debito pubblico, al fatto che l’occupazione sale solo per gli over 50 e alla restituzione del bonus. Quanto al pil, l’andamento negativo del 2013 viene confrontato con un “+1%” che è il dato – non paragonabile – relativo al primo trimestre 2016 rispetto allo stesso mese del 2015.
Trenta slide per trenta mesi”. Il premier Matteo Renzi non cambia verso: la settimana dopo il terremoto del Centro Italia, e nel giorno in cui dall’Istat è arrivata la notizia che gli occupatihanno ricominciato a calare, per rivendicare i risultati ottenuti dal governo in due anni e mezzo di lavoro non ha rinunciato alle usuali diapositive con numeri in caratteri cubitali. Improntati come sempre all’ottimismo e alla lotta ai gufi “seminatori di odioe di bugie”. Secondo il premier quei numeri raccontano “come stavamo prima dell’arrivo del nostro governo” e “come stiamo adesso”.
Numeri, “non chiacchiere“, chiosa il presidente del Consiglio nella sua enews, perché “le cifre non mentono“. Ma per comprimere trenta mesi in trenta slide sono state scelte accuratamente, cosa che non può non influenzare il quadro che ne risulta. Basti dire che il debito pubblico non compare da nessuna parte. Non solo: i numeri da soli – senza contesto, riferimenti temporali e spiegazioni – difficilmente danno informazioni sufficienti per “conoscere la verità” “in modo semplice e chiaro”. Soprattutto se si ricorre a quelli che Mario Seminerio sul suo blog Phastidio definisce “mezzucci da perfetto venditore di fumo come il cherry picking (la scelta dei numeri migliori, ndr) sui dati realizzato cambiando l’orizzonte temporale di riferimento”. Proprio per fare chiarezza Ilfattoquotidiano.it ha contestualizzato i principali dati economici che Renzi ha deciso di evidenziare. Aggiungendo i numeri su cui l’inquilino di Palazzo Chigi ha sorvolato.
Causa copyright il resto lo potete leggere qui:
triskell182;
oppure qui:
Il Fatto Quotidiano
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Qualcuno doveva pur dirlo, no? Dicono sempre che prima o poi le bufale vengono fuori e smascherate... anche stavolta è stata confermata questa cosa mi pare!
 

mercoledì 28 settembre 2016

Competitività, Italia al 44esimo posto nella classifica mondiale. La Russia ci scavalca, la Svizzera resta leader

di | 28 settembre 2016 Il Fatto Quotidiano

Dal 43esimo al 44esimo posto. L’Italia scende di un gradino nella classifica annuale sulla competitività industriale stilata dal Forum economico mondiale (Wef). In cima alla graduatoria, per l’ottavo anno consecutivo, si conferma la Svizzera, davanti a Singapore e Stati Uniti. I migliori Paesi dell’Ue risultano Paesi Bassi e Germania, che si piazzano rispettivamente in quarta e quinta posizione. Al sesto e settimo posto si collocano Svezia e Regno Unito, che fanno un balzo in avanti di tre posizioni. “Ma i dati presi in considerazione per Londra sono precedenti alla votazione sulla Brexit“, sottolinea il Forum. Completano la top ten Giappone, Hong Kong e Finlandia.
“La competitività dell’Italia – precisa il Forum – è migliorata ma più lentamente degli altri“. E così il Paese “scivola di un posto ed è 44esimo”, scalzato dalla Russia. Il principale punto di debolezza riscontrato nel nostro sistema economico è quello connesso ai problemi delle banche zavorrate di crediti deteriorati. Le riforme, prosegue il Wef, hanno migliorato la situazione, ma pesano la burocrazia, la fuga dei talenti e i tempi lunghi necessari perché il Jobs act dispieghi i propri effetti.
La classifica appena pubblicata – stilata tenendo conto di vari fattori tra cui infrastrutture, sanità, educazione ed efficacia dei mercati di 138 Stati – fotografa un’Europa divisa in due: un nord nel complesso più competitivo e un sud in generale difficoltà. Ma anche tra i Paesi del mediterraneo, l’Italia non risulta affatto in testa. Se la Grecia si ferma all’86esimo posto, la Spagna, 23esima, ci precede di 11 posizioni. Meglio ancora fa la Francia, che sale fino alla 21esima casella.
Alla base della supremazia svizzera, invece, la trasparenza delle istituzioni, l’efficacia del mercato del lavoro e le buone infrastrutture, oltre alla buona qualità del sistema formativo e alla capacità d’innovazione. Il sistema elvetico presenta anche delle debolezze, quali la persistente deflazione, una mancata concorrenza su certi mercati, la difficoltà nella creazione di nuove aziende e la poca partecipazione delle donne sul mercato del lavoro nel confronto internazionale, ma ciò non impedisce a Berna di occupare la prima posizione della classifica ininterrottamente dal 2007.
Quanto al resto del mondo, il Wef dedica uno spazio specifico ai Paesi emergenti, nei quali “l’accesso alla tecnologia e all’innovazione diventano fattori importanti per lo sviluppo dell’infrastruttura, dell’educazione e della salute”. Nel gruppo del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), in particolare, la Cina fa meglio di tutti, piazzandosi 28esima, seguita dall’India, 39esima ma in risalita di ben 16 posizioni. Russia e Sudafrica salgono entrambi di due gradini, passando rispettivamente al 43mo e al 47mo posto, mentre il Brasile scende di sei, e diventa 81esima. Nel mondo arabo gli Emirati Arabi Uniti si classificano sedicesimi, il Qatar diciottesimo e l’Arabia Saudita 29esima. In America Latina il Cile occupa la 33esima posizione, Panama la 42esima.
Nel complesso del contesto globale, il Wef riscontra soprattutto due problemi: da un lato un calo dell’apertura delle economie mondiali e dall’altro la presenza di stimoli monetari “non sufficienti” a rilanciare la crescita senza una forte competitività. “Il calo dell’apertura economica – afferma Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del Wef – sta danneggiando la competitività e rende più difficile spingere una crescita sostenibile e inclusiva”.
di | 28 settembre 2016

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martedì 27 settembre 2016

Elezioni presidenziali Usa, Clinton batte Trump nel primo duello tv: Hillary gioca d’esperienza, Donald evita gli eccessi

27/09/2016 di triskel182
Ex first lady preparata, ma non perfetta. Il tycoon mantiene un prtofilo presidenziale e soffre su tasse, donne e politica estera. Nessuno dei affonda il colpo per paura di sbagliare. Sondaggio Cnn: per il 62% vince candidata dem ai punti.Si sono scontrati praticamente su tutto. Tasse, commercio, crimine, politica estera, terrorismo, tensioni razziali. Lei lo ha attaccato per il suo “comportamento razzista”. Lui l’ha definita una “santerella”. Alla fine, dopo più di 90 minuti di dibattito, Hillary Clinton eDonald Trump hanno dipinto un’immagine d’America in potente, irriducibile contrasto: un Paese sulla strada di una inevitabile decadenza, per il candidato repubblicano; la nazione ancora capace di guidare il mondo, per la democratica. A una prima valutazione, Clinton è parsa più tranquilla e misurata. Trump ha evitato gli eccessi retorici del passato ma in certi momenti, per esempio sulla questione delle tasse e del certificato di nascita di Barack Obama, è parso in serie difficoltà.
Il dibattito – il primo dei tre previsti, organizzato alla Hofstra University di Long Island – è stato acceso sin dall’inizio, con Donald Trump che ha più volte cercato di interrompere Clinton (alla fine, il repubblicano ha parlato per circa 46 minuti, contro i 41 di Clinton). Uno dei momenti più infuocati è stato quando la democratica ha attaccato il rivale per la scelta di non rendere pubblica la dichiarazione delle tasse. “Nasconde qualcosa”, ha detto Clinton, alludendo al fatto che “magari Trump non è così ricco come ci vuole far credere” e potrebbe celare la provenienza illecita di ingenti finanziamenti internazionali e tasse non pagate al governo federale. La questione delle tasse è poi tornata quando Trump ha accusato i democratici di aver dissipato il denaro che ora manca all’erario. “Magari è perché tu non hai pagato le tasse!”, gli ha risposto Clinton.
Trump ha cercato di ribaltare sull’avversaria l’accusa di scarsa trasparenza. “Renderò pubblica la mia dichiarazione delle tasse quando lei produrrà le 30mila email che sono state cancellate dal server privato” usato quand’era segretario di Stato. Clinton, che ha preparato accuratamente questo dibattito e che si aspettava con ogni probabilità l’attacco, ha evitato di accampare le giustificazioni più volte ripetute nel passato. “Se dovessi trovarmi ancora in quella situazione, ovviamente mi comporterei in modo differente”. In vari momenti, comunque, Trump ha cercato di dipingere Clinton come “la politica tipica”, espressione di un’establishment incompetente e inefficace che da Washington ha perso il contatto con la “vera America”. “C’è bisogno di un cambiamento veloce, che solo io saprò produrre”, ha detto.
Altri momenti particolarmente accesi del dibattito sono stati quelli legati alle tensioni etniche e più in generale al tema della race. Alla domanda del moderatore, Lester Holt, Trump ha dovuto difendersi dall’accusa di avere per anni alimentato la teoria che Barack Obama non sia effettivamente nato negli Stati Uniti (e che quindi non sia stato legittimato a esserne presidente). Trump ha risposto spiegando di aver detto, e una volta per tutte, che “Obama è nato negli Stati Uniti”; e ha addossato su Clinton l’accusa di aver per prima sollevato quel sospetto. “I suoi collaboratori nella campagna presidenziale del 2008 attaccavano Obama sulla questione della nascita”. E’ stato, questo, uno dei momenti più difficili per il candidato repubblicano. Clinton, che punta a compattare gran parte del voto afro-americano che nel 2008 e nel 2012 ha sostenuto Obama, ha infatti avuto buon gioco ha definire “razzista” la questione del certificato. L’accusa è tornata quando la democratica ha ricordato che, negli anni Settanta, gli afro-americani non potevano vivere nei condomini costruiti dai Trump. Il tema delle tensioni razziali è emerso anche sul tema dello “stop and frisk” – la pratica di fermare e perquisire eventuali sospetti, che ha colpito in modo sproporzionato i neri. Trump ne ha proposto la reintroduzione. Clinton ha definito la pratica anti-costituzionale, ribadendo la necessità di “ascolto” di tanti giovani neri e dichiarandosi pronta a una riforma del sistema giuridico.
Trump ha messo invece in decisa difficoltà Clinton sulla questione dei trattati di commercio. Ha ricordato che, da segretario di Stato, la candidata democratica ha appoggiato la Trans-Pacific Partnership, che ora invece rigetta. L’accusa è servita a ribadire uno dei cavalli di battaglia di questa campagna elettorale del repubblicano: la perdita di milioni di posti di lavoro, portati all’estero dalle imprese americane, e la necessità di misure che contrastino i trattati di commercio internazionali. Clinton ha risposto attaccando la “trickle-down economics” di Trump, contagli alle tasse che favorirebbero soltanto i più ricchi. Ha proposto tagli alle tasse per la classe media, investimenti nelle infrastrutture, un aumento dei minimi salariali federali e il rispetto dell’eguaglianza salariale per le donne.
Nell’insieme, Clinton è apparsa più a suo agio quando si sono affrontati i temi internazionali. Ha fatto notare che Trump “non conosce gli elementi base del nostro ritiro dall’Iraq” e ha rivendicato l’accordo sul nucleare iraniano: “Quando sono diventata segretario di Stato, l’Iran era a un passo dall’avere la bomba atomica. Oggi, abbiamo un accesso importante alla produzione del nucleare iraniano”. La candidata democratica ha anche attaccato l’avversario per aver chiesto al governo russo di “hackerare il server del partito democratico”, per aver definito i cambiamenti climatici come “un’invenzione cinese” e per non avere una vera strategia diplomatica riguardo alle armi nucleari ma soltanto “una serie di sparate e misure incoerenti che potrebbero risultare pericolose per chi ha il dito sul bottone nucleare”. Alla rivendicazione di essere la candidata “con più esperienza”, Trump le ha risposto: “Ma con una cattiva esperienza”.
Tutta l’ultima mezz’ora del confronto, quella che resterà più nella mente dei telespettatori, è stata però nettamente a vantaggio di Clinton (secondo un sondaggio della Cnn, per il 62% degli intervistati ha vinto lei). Di fronte a una lunga ed energica rivendicazione di Trump – “ho tutto il temperamento che ci vuole per essere il commander-in-chief” – Clinton si è limitata a sorridere e scuotere le spalle. Di fronte a Trump che l’accusava di non avere “l’energia” per essere presidente – un riferimento nemmeno troppo velato ai problemi di salute delle scorse settimane, Clinton ha risposto ricordando “i 122 viaggi da segretario di Stato e le 11 ore consecutive passate a testimoniare davanti a una commissione del Congresso”. La candidata democratica è apparsa convincente anche quando ha ricordato le passate affermazioni sessiste di Trump, i suoi epiteti di “maiala” alle donne, il rifiuto di assumere donne incinte. In generale, la performance di Clinton è apparsa più “sulle cose”. Il suo limite resta ancora una volta quello di una visione d’insieme, più alta, unitaria, che Obama era stato capace di dare soprattutto nel 2008; sui temi specifici, comunque, ha fatto valere preparazione ed esperienza.
Trump invece, su consiglio del suo team, ha cercato di evitare in ogni modo aggressioni, insulti, eccessi che hanno segnato altre apparizioni pubbliche. La cosa non lo ha reso però più “presidenziale”; ha reso, al contrario, meno grintosa la sua performance. In certi momenti, soprattutto nella fase finale del confronto, il fiume di parole è parso poco chiaro, in certi momenti persino sconnesso. Un fastidioso e continuo “tirar su col naso” ha poi funestato diversi momenti della sua apparizione. Un segnale di “debolezza fisica” su cui in molti si sono scatenati sui social, e che è parso una sorta di contrappasso alle accuse e ai dubbi alimentati sulla salute di Hillary Clinton.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
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Bè un ruolo da comprimario se lo è ritagliato Trump, personalmente mi sarei aspettato qualcosa di più dallo sfidante ma forse l'idea è quella che, non potendola sfidare apertamente, abbia deciso di fare la vittima o ... un novello David contro la versione femminile di Golia!

lunedì 26 settembre 2016

Ue, il declino dell’Unione? Già pianificato, ma è pronto il nuovo regime

di | 22 settembre 2016 Il Fatto Quotidiano

Sostengo da anni ormai che il declino dell’Ue è un evento inevitabile poiché programmato, con buona pace di chi continua a sostenere il “più Europa”, o di chi vorrebbe farlo digerire alle masse come un qualcosa che non poteva essere previsto e frutto di insanabili divergenze politiche fra i leader dei paesi europei.
In un mio precedente post spiego perché. In sintesi, la crisi europea è stata affrontata prevalentemente con l’utilizzo di accordi internazionali extra Ue (Mes/Troika, Fiscal Compact, etc.), cioè al di fuori del quadro normativo dell’Unione, determinando di fatto la nascita di una nuova governance europea, con regole e meccanismi di funzionamento differenti, dove da un lato viene sancita la prevalenza degli interessi di mercato in caso di crisi, mentre dall’altro si attribuiscono maggiori poteri politici agli stati più forti (Germania e Francia).
Un esempio lampante del nuovo assetto europeo è certamente il trattato che istituisce il Mes (cioè la Troika), che prevede che il diritto di voto attribuito a ciascun paese partecipante (quelli della zona euro) sia attribuito in quote differenti (Germania e Francia in testa), nonché la perdita del diritto di voto per i paesi che non riescono ad adempiere ai propri impegni finanziari, cioè quelli in difficoltà. Altro che solidarietà.
Se si decide di creare un sistema diverso, evidentemente quello preesistente è destinato a essere declassato, ovvero sostituito. Non possiamo sapere con certezza quando il declino dell’Ue verrà presentato alle masse, ma è certo che tale percorso sia già in atto, e che l’alternativa è in corso di realizzazione, ed è quella predisposta da quel “sistema” che gli anti-Ue stanno tentando di contrastare. Dalla padella alla brace, insomma.
Dopo la Brexit, qualcuno ha lanciato la pietra dell’uscita dell’Italia dalla Ue e del ritorno alla lira. Faranno un uso strumentale del crollo dell’Ue, la daranno in pasto ai popoli europei per dargli l’illusione di una vittoria, di un cambiamento. Dietro l’angolo, invece, un sistema di governance europea molto più aggressivo. Junker sostiene che l’Ue va male, sarebbe più utile che ci dicesse cos’è che sta andando bene.
di | 22 settembre 2016

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Chi è che scrive ciò?
Lidia Undiemi Dottore di ricerca in diritto dell'economiaAutrice del libro Il ricatto dei mercati edito da Ponte alle Grazie. Sono consulente tecnico in materia di outsourcing e operazioni di societarizzazione. Sono dottore di ricerca in Diritto dell’Economia e mi sono laureata in Economia e Commercio (2003) presso l’Università di Palermo. Ho realizzato diverse pubblicazioni sul tema della tutela del lavoratori coinvolti in operazioni di outsourcing attuate dalle grandi aziende, e a tal fine ho condotto molte indagini sul campo, dal settore dei call center a quello della pubblica amministrazione. Dal 2011 ho iniziato un ulteriore percorso di studi circa l’evoluzione della crisi economica europea con particolare riferimento alle trasformazioni del rapporto fra Stato, Democrazia e Organizzazioni internazionali. Partecipo a incontri e convegni, anche universitari, su entrambi i fronti.
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......... a scanso di equivoci e per non dire che trattasi di 'solito' complottista, ma di serissima persona, docente universitaria, con tutti i titoli per poter dire la sua a ragione veduta senza se e senza ma!!!!!!

domenica 25 settembre 2016

Renzi aveva promesso che con lui l’Italia sarebbe tornata a contare eccome in Europa (Andrea Scanzi)

Fonte: Triskel182 24/09/2016

Come noto, Renzi aveva promesso che con lui l’Italia sarebbe tornata a contare eccome in Europa. Infatti: anche ieri, francesi e tedeschi ci hanno sbattuto la porta in faccia. Non so quale fosse il modello di riferimento di Renzi, ma se pensava a un’Italia che ricoprisse in Europa il ruolo che aveva Crisantemi nella Longobarda di Oronzo Canà, allora ci è riuscito benissimo.
(La cosa più patetica, in questa recita continua, è lui che ogni volta grida: “Adesso mi arrabbio e gliene dico quattro!”. E nessuno se lo fila. Mai. Poveraccio).
Da .facebook.com/Andrea-Scanzi
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poche chiare paroline...

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