venerdì 27 luglio 2018

Trump-Juncker, la Commissione europea ha svenduto agli Usa i diritti dei suoi cittadini

Fonte: Il FattoQuotidiano  Zonaeuro | 27 luglio 2018

di Monica di Sisto*
E’ bastato un viaggio del presidente della Commissione Claude Juncker a Washington perché il trattato commerciale più discutibile e discusso dai cittadini europei, il Trattato transatlantico di liberalizzazione di scambi, investimenti e servizi tra Europa e Stati Uniti, il Ttip, fosse rilanciato nella forma più accelerata, concentrata e meno trasparente possibile.
Certo: nessuno userà mai più la odiata sigla. Ma il pessimo negoziato rilanciato il 25 luglio deve spingerci tutte e tutti il più rapidamente possibile a chiedere uno scatto d’orgoglio ai nostri rappresentanti al Parlamento europeo e al Governo italiano perché questo blitz estivo venga arrestato al più presto.
Che cosa non va bene nel Ttip risorto dalle sue ceneri? Tutto! Basta scorrere la dichiarazione congiunta d’intenti sottoscritta da Trump e dal Commissario europeo. Innanzitutto ci troviamo la conferma del fatto che, come abbiamo più spesso sostenuto in queste pagine elettroniche: i dazi sull’acciaio posti da Trump fossero un falso problema. Infatti nella dichiarazione l’impegno a affrontarli e superarli si trova all’ultimo punto dell’elenco delle priorità di lavoro che le due parti si impegnano a risolvere.
Al primo punto, invece, dopo aver ricordato che “gli Stati Uniti e l’Unione europea contano insieme oltre 830 milioni di cittadini e oltre il 50% del Pil mondiale”, si lancia un’operazione verso “tariffe zero, zero barriere non tariffarie (ossia zero regole differenti tra le due parti) e zero sussidi per beni industriali non auto”, senza quindi toccare il settore automobilistico, su cui la Germania ha subito messo un veto, dichiarando così a chiare lettere chi comanda davvero nella Commissione. Fatti questi chiarimenti, le parti si impegnano a “ridurre gli ostacoli e aumentare il commercio di servizi, prodotti chimici, prodotti farmaceutici, prodotti medici e soia (che negli Usa, leader globali nell’export del cereale, è praticamente tutta Ogm). Insomma si vuole lavorare per liberare le mani prioritariamente a tutti quei settori rispetto ai quali da anni la società civile europea, i sindacati, i consumatori, gli ambientalisti e anche i produttori responsabili denunciano che tra le due sponde dell’Atlantico sono così lontane per standard e regole a tutela dei diritti di tutti, che sacrificarle per gli interessi dei soliti – pochi – poteri industriali, sarebbe una colpa imperdonabile.
Un paradossale modo di aprire le braccia a Trump, fino a ieri dipinto come il male assoluto, sbattendo la porta in faccia agli oltre quattro milioni di cittadini europei che hanno sottoscritto qualche anno fa la petizione europea per fermare il pericoloso Ttip.
L’Europa vuole “importare più gas naturale liquefatto (Gnl) dagli Stati Uniti per diversificare il proprio approvvigionamento energetico”, si legge ancora nel documento, quando è notorio che la maggior parte di questa risorsa negli Usa è estratta sbatacchiando la terra con la inquinante pratica del fracking, non ammessa da noi proprio per i suoi devastanti impatti anche sulla stabilità del sottosuolo. Inquieta, inoltre, che l’Europa spinga apertamente per “avviare uno stretto dialogo sugli standard al fine di facilitare gli scambi, ridurre gli ostacoli burocratici e tagliare i costi”. E questo, pericolosamente, senza alcun controllo democratico o parlamentare.
Quello che più preoccupa, infatti, per la tenuta democratica delle nostre istituzioni è che si dichiara “di istituire immediatamente un gruppo di lavoro esecutivo dei nostri più stretti consulenti per portare avanti questa agenda congiunta. Inoltre, individuerà misure a breve termine per facilitare gli scambi commerciali e valutare le misure tariffarie esistenti. Mentre stiamo lavorando su questo, non andremo contro lo spirito di questo accordo, a meno che nessuna delle parti non risolva i negoziati”. Insomma un oscuro gruppo di tecnici, senza mandato negoziale espresso o votato dai Governi europei né controllo parlamentare porterà avanti questa delicata trattativa, legando le mani dei governi europei rispetto alle future iniziative a protezione dei nostri diritti.
Come associazioni e comitati mobilitati in Italia e in Europa per un commercio più giusto e la promozione dei diritti sociali ed ambientali, oltre che di una “buona” economia, chiediamo ai parlamentari europei, a quelli italiani e al Governo del nostro Paese di farsi sentire il prima possibile per fermare il Ttip zombie, colpo di coda di Bruxelles a pochi mesi dalle nuove elezioni europee.
* portavoce della Campagna Stop Ttip/Stop Ceta Italia
Zonaeuro | 27 luglio 2018

giovedì 26 luglio 2018

Di Maio: sì al Jefta, no al Ceta. Un errore politico prima che strategico

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 26 luglio 2018  


di Alberto Zoratti*
I motivi sono nelle ultime righe della comunicazione inviata dal ministro Luigi Di Maio al Consiglio europeo per il “Sì” all’accordo con il Giappone, lettera venuta in possesso della Campagna Stop Ttip Stop Ceta Italia dopo una richiesta di accesso agli atti. L’Italia pensa di poterne controllare gli effetti e gli impatti sui diritti ambientali, sociali e sugli standard agroalimentari. Non sapendo che è proprio la tutela di questi diritti che non viene garantita da trattati di libero scambio strutturati come il Jefta, del tutto simile al Ceta, con il Canada e al (per ora) congelato Ttip, perché i capitoli dedicati non hanno alcuno strumento che ne permetta un reale rafforzamento, se non procedure consultive e un ruolo assolutamente marginale della società civile.
Per la sicurezza alimentare il Codex Alimentarius diventa riferimento unico, esattamente come per il Ceta e per il Ttip, sebbene molto spesso abbia standard più deboli di quelli europei. E per l’etichettatura, la questione non cambia: se si pensa che mentre in Europa la presenza di Ogm dei cibi viene considerata accidentale se sotto allo 0,9% (senza obbligo di citazione in etichetta), in Giappone la soglia è attorno al 5%. E il tutto verrà armonizzato da un sistema di comitati tecnici che si riuniranno senza il minimo controllo parlamentare. Come per il Ceta.
Niente Isds, quindi tutto va bene?
Nel Jefta non è contemplato l’arbitrato investitore-Stato (Isds), e non per gentile concessione della Commissione Eu. Continuare il negoziato avrebbe ritardato l’approvazione dell’accordo, considerate le distanze sul capitolo investimenti che, essendo di competenza nazionale, avrebbe richiesto la ratifica da parte dei Parlamenti degli Stati membri. Fastidi evitati facilmente dallo spostamento di un accordo sugli investimenti più avanti, a Jefta ratificato dal solo da parte del Parlamento europeo. E gli stessi europarlamentari potranno solo accettare o rifiutare il trattato, non esistendo alcuna possibilità di emendamento del testo finale. Nonostante il Jefta, esattamente come il Ceta, sia stato portato avanti senza la dovuta trasparenza, già richiesta dall’Ombudsman europeo per il Ttip.
Servizi in vendita
Sul fronte dei servizi, l’accordo Ue-Giappone usa l’identico approccio del Ceta: tutti quei servizi non elencati nell’apposito allegato, saranno aperti alla concorrenza da parte delle imprese giapponesi. Se prima bisognava specificare quali servizi erano disponibili alla privatizzazione, ora è il contrario, con il rischio che dall’elenco di servizi da salvaguardare vengano esclusi alcuni settori importanti. Senza contare che, per “servizi pubblici” l’accordo intende soltanto quelli forniti dallo Stato e senza contropartite economiche. L’acqua, in questo quadro, non è considerata servizio pubblico.
La liberalizzazione dei servizi finanziari include nella lista quei prodotti all’origine della crisi finanziaria come i prodotti derivati. E la cooperazione normativa considerata nell’accordo, invece di spingere a rafforzare gli standard di regolamentazione finanziaria soprattutto in una fase di instabilità e di volatilità, andrà verso la deregulation e la semplificazione.
Quindi Jefta sì, Ceta no?
Dicendo“Sì” al Jefta, Di Maio ha delegittimato una strategia condivisa con i movimenti: modificare la struttura dei trattati e il modo con cui vengono negoziati e approvati. Considerato che gli accordi conclusi non sono più negoziabili, tanto meno dai governi. Spostare l’attenzione sui potenziali vantaggi economici senza evidenziare criticità in altri settori, distrae da una profonda revisione del modello di trattato di libero scambio a un semplice calcolo aritmetico.
Nel luglio del 2016 le reti della società civile in occasione della votazione della risoluzione Lange sul Ttip al Parlamento di Strasburgo, proposero e presentarono sei emendamenti al testo di relazione che sottolineavano vere e proprie linee rosse insuperabili. Quelle proposte, sostenute da europarlamentari appartenenti a schieramenti diversi ponevano questioni di procedura, trasparenza, rispetto dei diritti ambientali e sociali. Molte delle quali, ancora oggi, dovrebbero essere riproposte per il Jefta.
*presidente di Fairwatch, Campagna Stop Ttip/Ceta Italia

Zonaeuro | 26 luglio 2018

mercoledì 25 luglio 2018

Tempesta perfetta si sta per abbattere sull’economia Usa

Fonte: W.S.I. 25 luglio 2018, di Alessandra Caparello

Una tempesta si sta abbattendo sull’economia statunitense. A dirlo alla Cnbc l’economista Diane Swonk secondo cui, anche se non c’è una vera e propria guerra commerciale, l’incertezza che circonda i dazi può danneggiare l’economia statunitense a stelle e strisce.
“Se vogliamo continuare ad avere questa incertezza, nel tempo si avrà un effetto corrosivo che si accumulerà nel 2019 con meno investimenti”.
Le tariffe, insieme ad un rafforzamento del dollaro e ai tassi in crescita finiscono per minare la competitività dei produttori e di altri esportatori.
“L’economia statunitense ha un po’ di ammortizzatori, e possiamo resistere alla tempesta per un po’. Ma la tempesta si sta abbattendo e le correnti sotterranee si stanno chiaramente formando.
Il riferimento è alle tensioni commerciali tra gli Stati Uniti e il resto del mondo che sono aumentate. La Cina è stata l’obiettivo frequente del Presidente Donald Trump e la settimana scorsa, il presidente ha detto alla CNBC che è “pronto” a mettere le tariffe su tutti i 505 miliardi dollari di merci cinesi importate negli Stati Uniti. Washington ha già abolito le tariffe doganali sui 34 miliardi di dollari di prodotti cinesi. Pechino dal canto sui ha colpito indietro con tariffe di ritorsione sulla stessa quantità di beni degli Stati Uniti.
L’amministrazione Trump ha inoltre imposto tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio da diverse nazioni, tra cui alleati chiave come Canada, Messico e Unione Europea. L’economista Swonk ha detto che le tariffe applicate finora non sono così grandi, ma la minaccia delle tariffe mina la fiducia.
“Se domani dovessimo avere una guerra commerciale completa, che non credo avremo, allora si potrebbe vedere una recessione nel 2019 (…) Se vogliamo continuare ad avere questa incertezza, nel tempo si avrà un effetto corrosivo che si accumulerà nel 2019 con meno investimenti.
Secondo Venu Krishna, vice capo della ricerca azionaria statunitense a Barclays, le tariffe hanno un ampio impatto negativo. Le piccole imprese saranno più danneggiate, contrariamente alla credenza popolare che siano meglio protette perché sono domestiche.
“Queste società, infatti, hanno una maggiore esposizione all’esportazione e all’importazione. I loro margini sono notevolmente più deboli e quindi non sono in grado di assorbire i costi. E infine, non hanno il potere dei prezzi”.

martedì 24 luglio 2018

Ue: “I mercati rimetteranno nei binari l’Italia”

Fonte: W.S.I. 24 luglio 2018, di Alessandra Caparello

Da Bruxelles arriva un nuovo avvertimento per l’Italia: “se dovesse sfidare i vincoli europei sui conti pubblici, i veri problemi non arriverebbero dall’Ue”, ma dai mercati. A parlare in questi termini è una fonte europea a La Stampa.
“Prima ancora di un’eventuale procedura da parte della Commissione per la violazione delle regole del Patto di Stabilità, ci penserebbero i mercati a rimettere l’Italia nei binari (…) non è una minaccia, ma soltanto la constatazione di quello che potrebbe succedere nei prossimi mesi se il governo decidesse di tirare troppo la corda”.
Un’affermazione in risposta alle recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini secondo cui l’Italia potrebbe ignorare il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil. In via ufficiale dalla Commissione europea fanno sapere che i conti pubblici italiani saranno al vaglio dei tecnici di Bruxelles a ottobre, quando l’esecutivo giallo-verde invierà il progetto di legge di bilancio.
Ma sottobanco trapela altro ossia che l’unico che conta al momento in Europa per l’Italia è il ministro dell’economia Giovanni Tria che al Washington Post ha ribadito che l’impegno del paese è ridurre il debito e il deficit resterà nei limiti.
Quindi a conti fatti c’è un muro a muro: Tria contro tutti. “A questo punto sembra che l’estate non passerà liscia ma servirà per mettere sotto stress il Mef e Palazzo Chigi” scrive Lina Palmerini sul Sole 24 Ore che ipotizza uno scontro che arriverà al voto anticipato.
“Il punto è fin dove spingerà il braccio di ferro il vicepremier leghista. Fino al punto di provocare le dimissioni di Tria? La scelta di violare gli impegni con Bruxelles, probabilmente, comporterebbe pure contraccolpi per gli Esteri guidati dall’europeista Moavero. Ci si troverebbe, dunque, non soltanto davanti a una dimissione di peso ma a una tappa verso il voto anticipato”.

lunedì 23 luglio 2018

Legge Stato-Nazione ebraica, Daniel Barenboim: “Oggi mi vergogno di essere israeliano”

Fonte: Il Fatto Quotidiano   di | 23 luglio 2018
È stato il primo uomo ad avere entrambi i passaporti di Israele e Palestina ed è il fondatore della West Eastern Divan Orchestra nata per suonare giovani musicisti professionisti provenienti però da Israele, Egitto, Giordania, Siria, Libano, Palestina. Daniel Borenboim, nato a Buenos Aires, 75 anni fa, uno dei direttore d’orchestra più talentuosi, scrive di suo pugno un durissimo intervento sul quotidiano Haaretz dal titolo: “Oggi mi vergogno di essere israeliano”. L’artista interviene così contro l’approvazione della Knesset (parlamento) della legge che qualifica Israele come “lo Stato nazionale del popolo ebraico”. Il significato di quella legge, sostiene, è che “gli arabi in Israele diventano cittadini di seconda classe. Questa è una forma molto chiara di apartheid“. Barenboim sostiene che la settimana scorsa il parlamento israeliano ha tradito gli ideali dei Padri fondatori del Paese. Loro puntavano “alla libertà, alla giustizia, alla pace… promettevano libertà di culto, di coscienza, di lingua, di educazione, di cultura”. Ma 70 anni dopo, accusa, “il governo israeliano ha approvato una legge che sostituisce il principio di giustizia ed i valori universali con nazionalismo e razzismo“. “Non riesco a capacitarmi che il popolo ebraico sia sopravvissuto 2000 anni, malgrado le persecuzioni ed infiniti atti di crudeltà, per trasformarsi adesso in un oppressore che tratta crudelmente un altro popolo. Ma questo è esattamente ciò che fa la nuova legge. Pertanto oggi mi vergogno di essere israeliano”.
La legge è stata approvata lo scorso 19 luglio dopo un infiammato dibattito alla Knesset con il voto di 62 deputati contro 55. Un provvedimento esaltato dal premier Benyamin Netanyahu che l’ha definito “un momento chiave negli annali del sionismo e dello stato di Israele” e condannato dall’opposizione (con i testa i partiti arabi), dai palestinesi e dalla stessa Ue. La legge passata aveva dichiarato il primo ministro palestinese Rami Hamdallah “istituzionalizza e legittima le politiche di apartheid più che promuovere la giustizia e la pace”. Secondo il leader di Lista Araba Unita Ayman Odeh il provvedimento dimostra che Israele “non vuole” nel suo territorio i cittadini arabi. “È stata approvata una legge sulla supremazia ebraica e ci dice chiaramente – ha aggiunto – che noi siamo cittadini di seconda classe”. Le nuove norme hanno avuto una lunga gestazione e numerose revisioni e sono state a più riprese contestate sia dall’opposizione al governo Netanyahu – che ha presentato una valanga di emendamenti – sia dallo stesso presidente Rivlin che di recente ne ha in parte messo in discussione la correttezza istituzionale. Punto centrale della legge – ed alcuni commentatori hanno parlato a proposito di una “seconda nascita dello stato” – è l’articolo in base al quale “Israele è la storica patria del popolo ebraico che ha il diritto unico alla autodeterminazione nazionale”. La legge dichiara anche Gerusalemme capitale di Israele e adotta il calendario ebraico come quello ufficiale dello Stato secondo cui sono stabilite le feste sia civili sia religiose.
La ‘menorah’, il candelabro a sette braccia, insieme all’attuale bandiera sono “simboli nazionali” così come l’inno ‘Hatikvà’ (La Speranza). La lingua araba retrocede da idioma “ufficiale” dello stato a “speciale”, anche se una sibillina aggiunta specifica che “questa clausola non danneggia lo status dato alla lingua prima che la legge entri in vigore”. Altra norma controversa è la sanzione del fatto che “lo Stato vede lo sviluppo dell’insediamento ebraico come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere il suo consolidamento”.
Nella formula precedente – contestata da Rivlin – si consentiva allo stato di “autorizzare comunità composte da persone con la stessa fede e nazionalità in modo da mantenere il carattere esclusivo di quella stessa comunità”. Una dizione mal digerita anche da molti giuristi. “Questo è il nostro stato, lo stato ebraico. In anni recenti – aveva commentato oggi Netanyahu – ci sono stati alcuni che hanno tentato di mettere questo in dubbio, di offrire a minor prezzo il cuore del nostro essere. Oggi abbiamo fatto legge di questo: questa è la nostra nazionale, la nostra lingua, la nostra bandiera”. “Siamo preoccupati e abbiamo espresso la nostra preoccupazione e – aveva detto una portavoce della Commissione Ue – continueremo ad essere impegnati con Israele su questo tema. Deve essere evitata ogni soluzione che non punti alla soluzione a due Stati”. “Un altro tentativo – ha tagliato corto Hamdallah – di cancellare l’identità arabo-palestinese”.
di | 23 luglio 2018

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