domenica 6 giugno 2021

Trump bannato da Facebook, è giusto affidare l’etica dell’informazione a un social network?

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Loretta Napoleoni Economia Occulta - 6 Giugno 2021


La notizia che l’organo preposto da Facebook alle questioni etiche abbia permutato da permanente a due anni l’esclusione di Donald Trump da tutti i social controllati dall’impresa ha fatto il giro del mondo. Si è così colta l’occasione di rivisitare gli eventi che hanno portato lo scorso gennaio all’assalto a Capital Hill. Tutti gli opinionisti sono tornati a parlare della censura esercitata da Facebook nei confronti dell’ex presidente, quelli a favore dell’ex presidente hanno ricordato che più di 70 milioni di americani hanno votato per Trump, e dunque mettergli la museruola nei social equivale a privarli della possibilità di interagire con lui attraverso questi canali. Chi invece è anti Trump è rimasto sorpreso che l’esclusione sia stata ridotta a due anni, meglio quella permanente insomma.

Prima di proseguire soffermiamoci per un paragrafo sul potere immenso di organizzazioni come Facebook, imprese private bisogna ricordare, multinazionali che grazie alla loro presenza capillare nel villaggio globale riescono a pagare le tasse dove le aliquote sono più basse e anche a evitarle. Facebook può mettere a tacere chiunque, questa volta è toccato all’ex presidente degli Stati Uniti, la prossima potrebbe toccare a uno di noi. La decisione viene inizialmente presa dagli algoritmi e, nel caso di personaggi come Trump, revisionata dal management e da un gruppo di 20 consulenti. Nessuno di costoro è stato eletto democraticamente e quindi non deve rispondere all’elettorato. A prescindere da quello che Trump abbia scritto sui post e tweet la vera domanda da porsi è la seguente: è giusto affidare l’etica dell’informazione ad un sistema di questo tipo?

La notizia che invece non ha fatto il giro del mondo ed è rimasta confinata nei periodici specialistici è un’altra: la Commissione europea ha aperto un’indagine antitrust formale nei confronti di Facebook. Lo scopo è valutare se l’impresa abbia violato le regole di concorrenza dell’Ue utilizzando i dati pubblicitari raccolti, in particolare quelli degli inserzionisti, per competere con loro nei mercati in cui Facebook è attivo come gli annunci economici. L’indagine formale valuterà anche se Facebook collega il suo servizio di annunci pubblicitari online “Facebook Marketplace” al suo social network, in violazione delle regole di concorrenza dell’Ue.

Il vicepresidente esecutivo Margrethe Vestager, responsabile della politica di concorrenza dell’Ue, ha dichiarato: “Facebook è utilizzato da quasi 3 miliardi di persone su base mensile e quasi 7 milioni di aziende fanno pubblicità su Facebook in totale. Facebook raccoglie grandi quantità di dati sulle attività degli utenti del suo social network e oltre, consentendogli di rivolgersi a gruppi di clienti specifici. Esamineremo in dettaglio se questi dati diano a Facebook un vantaggio competitivo indebito, in particolare nel settore degli annunci economici online, dove le persone acquistano e vendono beni ogni giorno e dove Facebook compete anche con le aziende da cui raccoglie i dati. Nell’economia digitale di oggi, i dati non dovrebbero essere utilizzati in modi che distorcono la concorrenza”.

Il modello di Facebook poggia sulla raccolta e sullo sfruttamento dei nostri dati, Facebook è il minatore e noi la miniera. Si tratta di un’organizzazione a scopo di lucro che non ha quale fine la divulgazione dell’informazione, ad esempio un quotidiano o una rete televisiva, ma la massimizzazione dei profitti. È quanto l’indagine dell’UE ci ricorda.

Tornando alla domanda di cui sopra forse è il caso di riformularla: non è pericoloso affidare l’etica dell’informazione ad un’impresa che la usa quale materia prima di scambio?

martedì 1 giugno 2021

Bitcoin, euro digitale e contanti: indovina chi è l’intruso

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Beppe Scienza Economia & Lobby - 30 Maggio 2021

 

Parlano e straparlano di bitcoin soprattutto soggetti in conflitto d’interesse: intermediari che guadagnano sulle compravendite o docenti di corsi sulle cosiddette criptovalute, sciaguratamente anche in ambito universitario. Costoro addirittura lo consigliano come riserva di valore e per la diversificazione dei propri investimenti. Merita quindi chiarire alcuni punti.

Non è una moneta. A parte le intenzioni di chi l’ha inventato e i vaneggi di tanti suoi adoratori, il bitcoin non è una moneta. Non è usato come strumento di pagamento – una delle tre funzioni della moneta – salvo in fattispecie insignificanti. Ma soprattutto non funge da unità di conto, altra funzione precipua della moneta. In nessuna parte del mondo i prezzi di merci e servizi sono espressi in bitcoin, salvo forse in ambito criminale: offerta di materiale pedopornografico eccetera. Alcuni accettano pagamenti in bitcoin, ma mica li usano nei loro listini.

Un nuovo genere di attività. Il bitcoin rientra in una nuova categoria di investimenti (o attività), inesistente fino ad alcuni anni fa, quella appunto delle criptovalute. È innegabile poi che il bitcoin sia altamente speculativo. Si veda nel dicembre 2017 un crollo nell’ordine del 40% in due giorni. O negli ultimi due mesi un’escursione dai 63.000 ai 35.000 dollari. Per cui esso è inadatto a svolgere la terza funzione peculiare delle monete, quella di riserva di valore. Per giunta un’autorevole scuola di pensiero lo ritiene una versione digitale delle catene di sant’Antonio o schema Ponzi. Un risparmiatore prudente non metterà quindi nulla in bitcoin.

Euro digitale. La sua emissione è nei programmi della Bce e anche al riguardo c’è molta confusione. Infatti per alcuni aspetti informatici il futuro euro digitale assomiglia alle criptovalute. Ma giuridicamente e sostanzialmente è tutt’altra cosa: si tratta di una forma più evoluta, in quanto elettronica e non cartacea, del denaro contante. Per capire l’euro digitale bisogna quindi partire da esso, che non è quella cosa brutta e sporca, in odore di evasione e criminalità, che le banche e la stampa italiana vogliono fare credere. Al riguardo si veda una dichiarazione di Christine Lagarde: “Le banconote fanno parte della nostra economia, della nostra identità e della nostra cultura” o anche il mio precedente post “Ecco perché ho scritto ‘Viva i contanti’”.

Che l’euro digitale veda la luce non è certo. In ogni caso l’obiettivo è fornire ai cittadini un’alternativa digitale altrettanto affidabile quanto le banconote, che sono più sicure dei conti in banca, perché moneta della banca centrale e non delle banche private. Queste ultime infatti a volte saltano, mentre la Banca Centrale Europea non può fallire.

Per altro in nessun caso la nascitura moneta elettronica si presterà ad attività speculative. Un euro digitale varrà né più né meno di una moneta da un euro e 100 euro digitali né più né meno di una verdeggiante banconota da 100 euro. Banconote ed euro digitale sono due facce della stessa medaglia.

Segnalo un webinar gratuito sull’argomento per il 10 giugno, richiestomi da alcune associazioni di consumatori: https://www.ilrisparmiotradito.it/evento/webinar10giugno

martedì 18 maggio 2021

Soros, dopo il crac Archegos ha acquistato i titoli più svenduti dalle banche

 

fonte: W.S.I.  17 Maggio 2021, di Alberto Battaglia

 

La Soros Fund Management ha acquistato per svariati milioni di dollari una rosa di titoli azionari fortemente colpiti dal default del family office Archegos guidato da Bill Hwang.

Gli acquisti sono avvenuti nel corso del primo trimestre e, a quanto appreso da Bloomberg in via riservata, sono avvenuti dopo il crac di Archegos di fine marzo. La società d’investimento del finanziere George Soros, secondo quanto si legge in una dichiarazione resa alle autorità di vigilanza, ha acquistato nel primo trimestre azioni ViacomCBS per 194 milioni di dollari, Baidu per 77 milioni, Vipshop Holdings per 46 milioni, Tencent Music Entertainment per 34 milioni. Infine Soros si sarebbe aggiudicato anche una quota in Discovery, società che oggi (17 maggio) è sotto i riflettori in seguito all’annuncio di una futura fusione con WarnerMedia (lo ha annunciato la AT&T, dall’operazione nascerebbe un nuovo colosso in cui Cnn, Eurosport, HBO e Discovery sarebbero parte della stesso gruppo).

Soros, acquisti “scontati” dal caso Archegos

Il crac di Archegos, che secondo le dichiarazioni delle banche colpite, sarebbe costato circa 10 miliardi di dollari agli istituti con i quali Hwang faceva affari, si sarebbe così trasformato in un’opportunità d’investimento per George Soros. Per il momento però, nessuno fra i titoli svenduti in seguito al caso Archegos si è poi ripreso in Borsa: tutti, rispetto alla chiusura del 31 marzo, si trovano oggi ulteriormente indeboliti.

Ricordiamo che le banche più colpite dall’implosione del family office di Bill Hwang sono state Credit Suisse (impatto da 5,5 miliardi di dollari); Nomura (2,9 miliardi); Morgan Stanley (911 milioni); Ubs (861 milioni).

Parallelamente la Soros Fund Management ha venduto circa 435 milioni di dollari in azioni Palantir Technologies, che sono risultate l’operazione di alleggerimento più notevole nel primo trimestre.
Dal rapporto trimestrale della società d’investimenti di Soros, che gestisce 27 miliardi di dollari, è emersa una performance del 30% nei 12 mesi al febbraio 2021.

martedì 11 maggio 2021

Vaccini Covid, sospendere i brevetti potrebbe non servire a nulla

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Loretta Napoleoni Economia Occulta - 9 Maggio 2021


Ultimo colpo di scena nella tragedia Covid, Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, dichiara di essere favorevole alla sospensione dei brevetti farmaceutici per dare la possibilità ai Paesi poveri di farseli in casa. A prima vista questa è una dichiarazione di “sinistra”, anticapitalista, umanitaria, ecc. e tutti l’hanno applaudita, e perché no? Ricordiamo che non c’è industria più odiata al mondo di Big Pharma.

 

Passato il momento di euforia, analizziamo quanto avvenuto dettagliatamente per accorgerci che il colpo di scena è un altro: dietro le parole di Biden non c’è una strategia che mira a compensare gli squilibri tra mondo ricco e mondo meno ricco o mondo povero in materia di vaccini, ma la solita propaganda politica, la stessa aria fritta che la pandemia ha tristemente smascherato. E spieghiamolo.

In primis, nessuna nazione era preparata per la pandemia anche se dallo scoppio della Sars virologi, medici e scienziati esortavano i governi ad avere un piano d’azione di emergenza contagio. Ancor meno preparata era l’Organizzazione mondiale della sanità, che come tutte le istituzioni internazionali è obsoleta perché è stata creata a misura di un mondo che non esiste più da almeno 30 anni.

In secondo luogo, la carenza di vaccini non è dovuta ai brevetti ma allo scompenso tra domanda e offerta, non ci sono fabbriche né tecnici a sufficienza per produrre i vaccini a un ritmo più elevato di quello attuale, né abbiamo sufficienti materie prime per farlo. Siamo al massimo della capacità mondiale. L’idea che si possano fabbricare i vaccini dovunque e che il processo possa essere svolto da chiunque abolendo i brevetti è una favola perché l’ostacolo è industriale e strutturale. Liberalizzare i brevetti significherebbe aumentare la concorrenza su un mercato mondiale che non ha capacità addizionale e quindi far gravitare i costi di produzione. E qui è bene fare una riflessione. La proprietà intellettuale proprio perché intangibile appare meno significativa di quella, ad esempio, artistica, ma tutta l’industria della biotecnologia ruota intorno ai brevetti, l’investimento, a volte massiccio, dietro la ricerca scientifica, ricerca che può durare decenni, è motivato dai brevetti. Senza questo investimento moriremo di influenza e di tante altre malattie come i nostri antenati.

Ed è giusto che una volta ottenuto il risultato che si sperava di ottenere, chi ha investito nella ricerca riceva una ricompensa. I brevetti farmaceutici, si noti bene, non durano in eterno. La domanda da porsi è perché questo sforzo finanziario non lo fa lo stato? Perché la ricerca scientifica in settori come i vaccini, di interesse nazionale, non è condotta dalla stato?

Non solo lo stato è praticamente assente, sospendere i brevetti avrebbe serie ripercussioni sulla ricerca scientifica e sulla contraffazione dei vaccini. I brevetti garantiscono l’autenticità del prodotto. Basti menzionare che la tecnologia usata per i vaccini, mRNA, è ancora in via di sperimentazione per curare altre malattie come quelle cardiache ed il cancro, aprire le porte a tutti permetterebbe il saccheggio intellettuale e scoraggerebbe investitori futuri in ricerche sperimentali simili perché’ creerebbe un precedente storico.

In terzo luogo, se davvero l’intenzione è vaccinare tutti il mondo e la capacità di produzione è la massimo allora perché il ricco occidente una volta vaccinato se stesso non paga e invia i vaccini a chi non li ha? Ma per prendere una decisione di questo tipo bisogna assumersi la responsabilità di distribuire i vaccini e nessun governo ha intenzione di farlo per tanti motivi, tra cui la possibilità di esporsi a fallimenti logistici, vedi cosa è successo in Europa. Meglio dichiarare di essere d’accordo a sospendere i vaccini e passare la patata bollente agli avvocati. E già perché nel mondo libero e capitalista dove lo stato non investe nella ricerca, i brevetti sono protetti da recinti legati spesso invalicabili. Biden, che ha quasi ottant’anni, lo sa benissimo. Questo film, infatti, il mondo lo ha già visto.

Alla fine degli anni Novanta abbiamo assistito allo scontro sui costosi trattamenti per l’Hiv tra Big Pharma e diversi Paesi tra cui Brasile e Sud Africa. Le nazioni che lottavano per contenere l’epidemia volevano produrre farmaci generici per l’Hiv, ma le aziende che li avevano sviluppati li hanno accusati di voler violare gli accordi sui brevetti, la battaglia legale è durata anni impedendo la produzione di cure a basso costo. In realtà la dichiarazione di Biden ha menzionato i tempi lunghi di negoziazione necessari per accordarsi sulla sospensione di brevetti, un controsenso dal momento che il problema della pandemia e dei contagi è pressante, o si risolve adesso o ci penserà l’immunità di gregge.

Morale: l’esortazione a sospendere i vaccini ha trovato l’approvazione dei potenti del mondo, non solo Biden è d’accordo anche Putin si è detto favorevole alla proposta. Peccato che non servirà a nulla, non solo perché se mai si riuscisse a metterla in essere ciò avverrebbe quando la pandemia sarà un triste ricordo del passato, ma soprattutto perché non aumenterebbe la produzione di vaccini, con molta probabilità ne farebbe invece aumentare i costi di produzione.

domenica 11 aprile 2021

Irlanda del Nord, dopo Brexit si teme il ritorno della violenza politica

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo - 11 Aprile 2021 Loretta Napoleoni

Era prevedibile che l’accordo stipulato tra l’Unione Europea e il Regno Unito riguardo al confine irlandese riattivasse nell’Irlanda del Nord le tensioni politiche tra unionisti e filo-repubblicani. Ma nessuno aveva previsto una ripresa tanto rapida e feroce della violenza politica. A 100 giorni dalla Brexit nelle città dell’Irlanda del Nord tornano gli scontri tra cattolici e protestanti e le immagini di gruppi di ragazzini incappucciati e adulti che bruciano gli autobus, che si scontrano con le forze dell’ordine e si tirano le molotov sopra i muri divisori tra un quartiere e l’altro fanno presagire la fine di un periodo di pace che sembrava aver per sempre relegato la violenza dell’Ira e dei gruppi paramilitari degli Orange, i Loyalist, nel passato remoto dell’isola.

La genesi della rinascita della violenza politica nell’Irlanda del Nord va ricercata nei trattati stipulati da un governo britannico disattento, che ha voluto raggiungere un compromesso a tutti i costi, e dalla burocrazia governativa di Bruxelles, che in materia politica è decisamente poco professionale perché fondamentalmente autoreferenziale. La lista degli errori della Von der Leyen è lunga e continuerà ad esserlo fino alla fine del suo mandato, senza alcuna conseguenza tangibile per lei o il suo entourage perché non è stata eletta e quindi non potrà mai esserlo di nuovo. Eppure, l’ostinazione ad imporre un confine ‘duro’, con controlli e verifiche sui movimenti di merci e persone tra l’Unione Europea e il Regno Unito, sta avendo un impatto politico tremendo sulla popolazione dell’Irlanda del Nord, della Repubblica Irlandese e del Regno Unito.

Per tutta la durata delle negoziazioni Londra si è rifiutata di accettare le richieste di Bruxelles di erigere un confine in Irlanda. Lo scopo era prevenire il ritorno della violenza settaria che tra il 1960 ed il 1998, quando venne firmato il Good Friday agreement, aveva mietuto tremila vittime.

L’accordo firmato in extremis a ridosso della Brexit da Londra e Bruxelles prevede così lo spostamento del confine nel mare d’Irlanda, quindi all’interno del Regno Unito: ciò significa che de facto l’Irlanda del Nord rimane parte dell’Unione Europea e del Regno Unito allo stesso tempo, con l’obbligo però di non diventare una porta secondaria di accesso tra i due.

Tutto ciò ha creato distorsioni economiche prevedibili che hanno confermato i timori di molti: che l’Irlanda del Nord venisse tagliata fuori dall’unione britannica, costretta a gestire i flussi di merci come se de facto fosse nell’Unione Europea. Già a gennaio giravano le immagini dei supermercati di Belfast o Londonderry vuoti: molte spedizioni dal Regno Unito si sono infatti arrestate a causa delle lunghissime pratiche burocratiche introdotte per attraversare il confine e dell’incertezza su come svolgerle. Gli importatori irlandesi hanno denunciato l’aumento dei costi dei prodotti britannici dovuti alle spese doganali, una situazione surreale.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la minaccia da parte dell’Unione Europea di ignorare parte dell’accordo, onde evitare che i vaccini europei raggiungessero il Regno Unito attraverso l’Irlanda del Nord. L’idea, anche remota, che si erigesse un confine all’interno dell’Irlanda ha scatenato le ire delle forze Loyalist, già preoccupate che il confine nel mare del Nord facesse gravitare l’Irlanda del Nord sempre più verso la Repubblica Irlandese, fomentando la spinta a diventarne parte. Non è bastata la dichiarazione della Von der Leyen che tale minaccia era stata un errore del suo ufficio a placare gli animi.

Insufficienti sono state anche le rassicurazioni di Londra riguardo alla possibilità di posporre la ratificazione dell’accordo riguardo al confine nel mare d’Irlanda al 2024, quando le forze politiche dell’Irlanda del Nord potranno esprimersi a riguardo. Naturalmente Bruxelles non ne vuole sapere e ha minacciato altre ritorsioni.

A 100 giorni dalla Brexit il pensiero che nell’Irlanda del Nord torni la violenza politica degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta fa paura, e ci si augura che sia Boris Johnson che Ursula Von der Leyen non vogliano passare alla storia come coloro che ne hanno riacceso la miccia.

venerdì 9 aprile 2021

Sofagate, l’Ue si defila.....

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

| 9 Aprile 2021


Dalla Turchia continuano gli attacchi nei confronti di Mario Draghi, dopo che il presidente del Consiglio, nel corso della conferenza stampa di giovedì, ha definito il capo dello Stato turco, Recep Tayyip Erdoğan, “un dittatore con cui si deve cooperare”. A parlare è il vicepresidente turco Fuat Oktay che, senza giri di parole, ricorda al premier il passato fascista del Paese: “Se vuole vedere cosa sia una dittatura – ha dichiarato – deve guardare alla storia recente” del suo Paese “e lo vedrà molto chiaramente”. E mentre da Ankara chiede che il presidente del Consiglio ritiri le proprie affermazioni e si scusi, l’Europa si defila, e sembra voler lasciare che a risolvere il caso diplomatico che si è innescato siano solo Roma e Ankara, al fine di non compromettere i rapporti con Bruxelles, fondamentali per diversi dossier, su tutti la gestione dei flussi migratori.

L’Ue si defila dalla polemica Draghi-Erdoğan: “Non sta a noi giudicare le persone”. “No comment” della Germania
L’imbarazzo nei corridoi dell’Unione europea e tra gli Stati membri, in particolare la Germania, è palpabile. Da una parte la consapevolezza che le parole di Draghi, seppur scomposte e poco diplomatiche, non si discostino molto dalla realtà, tenendo conto che, oltre allo sgarbo protocollare nei confronti di Ursula von der Leyen, stiamo parlando di un Paese che dal fallito golpe del 2016 sta usando la scusa della sicurezza nazionale per incarcerare migliaia di giornalisti, professori, attivisti e, in generale, critici del governo di Ankara. Dall’altra, però, l’evidenza del fatto che la Turchia rappresenta un Paese fondamentale per l’Europa, in particolar modo sul dossier migranti.

Così, la Commissione Ue con uno dei suoi portavoce, nel corso del consueto midday briefing a Palazzo Berlaymont, ha dichiarato che “la Turchia è un Paese che ha un Parlamento eletto e un presidente eletto, verso il quale nutriamo una serie di preoccupazioni e con il quale cooperiamo in molti settori. Si tratta di un quadro complesso, ma non spetta all’Ue qualificare un sistema o una persona“. E ha poi aggiunto che le preoccupazioni nutrite dall’Ue verso Ankara “riguardano la libertà di espressione, i diritti fondamentali, la situazione del sistema giudiziario”. Una posizione abbastanza tiepida, visto che è stato proprio il capo della commissione stessa a subire quello che in molti hanno letto come un affronto diretto a una leader donna.

D’altra parte, nemmeno da Berlino, principale sponsor degli accordi con Ankara ma anche governo amico di Draghi, arrivano prese di posizione. In due occasioni, la portavoce del governo federale, Ulrike Demmer, ha infatti preferito ricorrere al ‘no comment’ per evitare di urtare la sensibilità delle parti in causa. Sia quando le è stato chiesto di commentare le parole di Draghi (“non commentiamo affermazioni di capi di Stato e di governo”) che quando è stata invitata a dare un parere sul protocollo adottato nel corso della visita di von der Leyen e Michel ad Ankara (“non commento questioni protocollari. Bisogna rivolgersi alla Commissione europea e al segretariato del Consiglio europeo, che si sono già espressi”). Una posizione difficile da tenere, quella tedesca: se da una parte stiamo parlando del Paese più importante tra quelli membri dell’Unione europea e che più volte si è esposto a sostegno dei diritti umani, ultimo caso la vicenda Navalny, dall’altro Berlino è anche il principale sponsor degli accordi con la Turchia. Questo perché Ankara, ormai dal 2015, tiene la mano sul rubinetto dei flussi migratori lungo la rotta balcanica, continuando a minacciare di inviare al confine con la Grecia i circa 4 milioni di rifugiati siriani ospitati secondo gli accordi raggiunti proprio con Bruxelles. Migranti che arriverebbero in massa anche e soprattutto in Germania, Paese che più di tutti ha aperto le porte ai rifugiati mediorientali. Inoltre, si deve ricordare che la comunità turca in Germania è molto numerosa e uno scontro con il presidente Erdoğan rischierebbe di generare anche tensioni interne.

Gli unici a prendere posizione a sostegno di Draghi a bruxelles sono gli eurodeputati che compongono la commissione per la difesa dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere, secondo cui la “misoginia del presidente turco e l’inerzia del presidente del Consiglio europeo Charles Michel” devono essere sottolineate. Evelyn Regner dei Socialisti, presidente della commissione, ha parlato di “mancanza di rispetto” che “va oltre la persona e l’istituzione” e che “dimostra ancora una volta quanto vada fatto per sostenere le donne in posizione di leadership”. Non meno duri gli altri componenti, a partire dalla vicepresidente Eugenia Rodríguez Palop (Gue/Ngl) convinta che “il disprezzo mostrato verso la presidente von der Leyen, rimasta senza sedia, sia un esempio della campagna contro i diritti delle donne in Turchia”. A farle eco la terza vicepresidente Elissavet Vozemberg (Ppe) che ha parlato di “comportamento inaccettabile e denigratorio di Erdoğan nei confronti della presidente della Commissione”. Robert Biedron (Socialisti), quarto vicepresidente, ha criticato la “totale mancanza di rispetto di Erdoğan non solo verso l’uguaglianza di genere, ma anche nei confronti del protocollo diplomatico”. L’eurodeputato Frances Fitzgerald (Ppe) ha invece parlato di “sessismo quotidiano ai livelli più alti della politica e della diplomazia”, mentre Maria Noichl (S&D) ha sottolineato la “chiara responsabilità anche da parte di Charles Michel”.

Il vicepresidente turco: “Vogliamo le scuse di Draghi”
Oktay ha “condannato” su Twitter le parole del premier italiano e ha fatto sapere che il governo di Ankara esige delle “scuse”: “Condanno – ha spiegato – le dichiarazioni sfrontate e scandalose del premier Draghi riguardo al nostro presidente che per tutta la sua vita ha fatto gli interessi del suo Paese e della sua Nazione, si è opposto a ogni forma di fascismo e patronaggio e ha vinto ogni elezione con grande fiducia da parte del popolo”.

Ieri sera, poco dopo le parole pronunciate da Draghi, l’ambasciatore italiano ad Ankara, Massimo Gaiani, è stato convocato dal ministero degli Esteri turco che ha protestato ufficialmente per “le inaccettabili dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano”. Nel corso del colloquio con Gaiani, si legge in una nota, il vice ministro degli Esteri e direttore degli Affari Ue, Faruk Kaymakci, ha affermato che la Turchia “condanna fermamente le dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano nominato”, sottolineando che Erdoğan è “un leader che è stato eletto con il più alto voto popolare di sostegno in Europa e che noi ci aspettiamo che queste dichiarazioni impertinenti e inopportune, che non possiamo collegare in alcun modo all’amicizia e alleanza turco-italiana, vengano immediatamente ritirate”. Kaymakci ha inoltre sostenuto che “le dichiarazioni, rese senza conoscenza degli accordi protocollari riguardanti le visite dei presidenti del Consiglio Ue e della Commissione Ue nel Paese sono inaccettabili, che nessuno dovrebbe mettere in dubbio l’ospitalità della Turchia, che la Turchia non prenderà parte a discussioni senza senso e malintenzionate all’interno dell’Ue e che trova vani gli sforzi per minare l’agenda positiva Turchia-Ue”.

mercoledì 7 aprile 2021

Una Carbon Tax serve, ma non è abbastanza

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 6 Aprile 2021  Fridays For Future Italia

Nel mezzo delle tenebre, mentre la terza ondata del virus si infrange contro le nostre imbarcazioni già precarie, intravediamo una luce. La campagna vaccinale, su cui il governo punta, ci porterà fuori da questo incubo. Ma la tanto agognata serenità e spensieratezza non durerà a lungo. Come ha scritto all’inizio della pandemia l’ex direttore del The Guardian Alan Rusbridger, il virus è solo l’antipasto della crisi climatica. Non è quindi più il tempo di vuoti proclami o discorsi strappalacrime: è ora di agire.

Tra le proposte più gettonate per combattere la crisi climatica occupa un posto privilegiato la Carbon Tax.
Questa tassa affonda le sue radici nella teoria economica mainstream: le emissioni nocive sono, infatti, un chiaro esempio di esternalità negative. Semplificando: un’azienda ha come obiettivo il profitto, quindi si tratta di ridurre i costi e aumentare i guadagni. Ma nel computo, in questo caso dei costi, ve ne sono alcuni che non ricadono sull’azienda ma sull’intera comunità. Siamo quindi in presenza di un fallimento del mercato, condizione necessaria per un intervento dello Stato.

La suddetta tassa sarebbe imposta sul consumo da parte delle attività economiche e produttive dei combustibili fossili – dal gas al carbone. Non ha funzione di gettito, e anzi nel lungo periodo esso dovrebbe essere nullo: nonostante ciò, con quanto ottenuto nel breve periodo si potrebbe finanziare una parte della transizione ecologica. Tuttavia è necessario porre l’accento su alcune importanti questioni.

 

Primo: da sola la Carbon Tax non solo non è sufficiente, ma rischia di essere dannosa. Innanzitutto, è necessario – perché sia efficace – che essa sia implementata in maniera graduale, il che significa non ritardare troppo la sua imposizione, considerati i pochi anni che rimangono per riuscire ad agire contro la crisi climatica. È dunque opportuno che una tassazione di questo tipo sia posta il prima possibile. Inoltre, a livello di Unione Europea, da una parte manca un’armonia fiscale (che sarebbe invece assolutamente necessaria al funzionamento di una tassazione di questo tipo), dall’altra senza una sua controparte “alla frontiera” (i.e. una tassazione sui prodotti di importazione basata sulla CO2, ed equivalenti, emessa per la produzione di tale prodotto) rischia semplicemente di portare alla delocalizzazione della attività produttive.

Secondo – ma non certo per importanza – c’è da tenere di conto del principio fondamentale che deve essere posto alla guida della transizione ecologica: la giustizia sociale. Se da una parte il concetto di imposta sull’esternalità risponde all’ideale di fondo – patrimonio anche del diritto Ue vedasi l’Art. 191, comma 2 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – del “chi inquina paga”, senza una riforma complessiva del sistema fiscale e una estrema attenzione alla questione sociale e lavorativa l’onere di una tassa del genere rischia di ricadere sul lato rigido del mercato, e conseguentemente sulle fasce meno abbienti della popolazione.

Infine, per impedire il collasso climatico e per garantire una giusta transizione ecologica è necessario abbandonare il paradigma del non-interventismo statale nell’economia. Per fronteggiare la crisi climatica serve un ripensamento della politica industriale. Ovviamente questo punto non è indolore: il rischio di un’eccessiva politicizzazione è sempre dietro l’angolo. Per questo il rinnovato interesse per l’intervento statale nell’economia si deve accompagnare a una seria riflessione sulla governance e sulle strategie da adottare.

Il nostro Paese non ha ancora implementato una Carbon Tax e invece di sussidiare attività che vanno nella direzione della transizione ecologica fa l’esatto opposto, dando 19 miliardi all’anno ai combustibili fossili. Con il gettito ottenuto nel breve periodo, oltre a finanziare la transizione, si potrebbe intervenire sulla tassazione: abbassare infatti le aliquote marginali più basse dell’Irpef porterebbe a un aumento dei consumi, quindi della domanda. Questo, unito a un programma di incentivi statali, ci avvierebbe sulla strada di quella che potremmo chiamare “transizione ecologica gentile”.

Per agire sul lato della domanda è altresì necessario un piano di investimenti pubblici, sulla falsariga del “Green New Deal” presentato al Congresso da Alexandria Ocasio Cortez. Così facendo, inoltre, si andrebbero a creare “good jobs”, in grado di aumentare la produttività stagnante del nostro Paese.

Questo perché gli investimenti nella transizione creano molta più occupazione di qualsiasi investimento fatto nel fossile. Si parla, infatti, di un rapporto di circa 3:1. Tirando le somme, dunque, come direbbero i matematici: la Carbon Tax è una condizione necessaria, ma non sufficiente.

domenica 4 aprile 2021

Spionaggio russo, si fa presto a dire Guerra Fredda

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Stefania Limiti Cronaca - 31 Marzo 2021

Si fa presto a dire Guerra Fredda ma allora, quando veniva scoperta una spia, non seguiva un comunicato stampa. L’incredibile vicenda del capitano di Fregata beccato con le pive nel sacco dal Ros dei Carabinieri scuote gli ambienti diplomatici e militari ed evoca la Guerra Fredda. Gli ingredienti ci sono tutti: un ufficiale della Marina e un militare russo, accreditato all’ambasciata di Mosca a Roma, i due da tempo si scambiano documenti, non sanno che l’Aisi, l’Agenzia Informazioni Sicurezza Interna, li tiene d’occhio e ha già informato lo Stato Maggiore della Difesa.

L’affaire potrebbe avere contorni pazzeschi, vedremo. Se non fosse per quei miseri 5000 euro: tanto ha intascato il capitano di Fregata per passare documenti top secret che riguarderebbero sistemi di telecomunicazione militare e carte della Nato. Ora l’uomo si trova in stato di fermo per spionaggio e rivelazione di segreto mentre il cittadino russo e un suo complice sono stati immediatamente espulsi dalla Farnesina. Non sappiamo dunque da quanto tempo andasse avanti questo mercato e quali danni possa aver creato alle informazioni riservate, ma quei 5mila euro e questo immediato rimbalzo delle notizie....

Un tempo, stanato lo sporco traffico, si sarebbe stappata una bottiglia al chiuso di un ufficio impregnato di fumo, se proprio si voleva festeggiare. Poi si passava a studiare la faccenda e lì iniziava un contorto dialogo a distanza da una sponda all’altra, si aprivano trattative o ricatti, c’era sempre qualcosa da scambiare. Di certo non arrivava il pm di turno, a nessuno veniva in mente di condurre le operazioni chiedendo permesso. Roba da far tremare i polsi a pensarci oggi, ma allora era così.

La storia della Guerra Fredda è accaduta fuori da ogni ufficialità, ancorché gli storici cerchino documenti ufficiali. Figurarsi cosa accadeva per le faccende di spie. Vi immaginate il folle James Angleton chiamare l’ufficio del procuratore per spiegare come veniva reclutate le ex spie naziste? O il mitico colonnello Yuri Drozdov, immortalato ne Il ponte delle spie da Steven Spielberg, discutere i particolari di un comunicato stampa?

La brutta storia di oggi ci fa pensare, piuttosto, a poveracci in cerca di soldi, magari persi al gioco, improvvisati felloni che si vendono carte nell’era del digitale, più che a spie. Ci ricorda, in definitiva, che la Guerra Fredda è lontana.

lunedì 29 marzo 2021

Perché si parla poco del costante calo del quoziente intellettivo della popolazione

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Paolo Ercolani Società - 28 Marzo 2021

 

Uno degli esempi più lampanti di quanto poco la nostra epoca si preoccupi dell’intelligenza è dato dall’hashish. Legalizzarlo sì, legalizzarlo no, un favore alla malavita, però lenisce le sofferenze dei malati terminali (vero), placa l’ansia (vero solo in alcuni casi). Nessuno, però, che si concentri sull’unico effetto accertato: i danni provocati al cervello, in particolare la riduzione del volume della materia grigia orbito-frontale, in molti casi con un riscontrato calo del quoziente intellettivo.

Già, il quoziente intellettivo. Al netto di tutte le critiche legittime sui criteri, e sulla pretesa di misurare un fenomeno così complesso come l’intelligenza, se ci atteniamo ai dati degli ultimi cento anni facciamo una scoperta interessante. Per larga parte del XX secolo e fino al 2009 il livello medio di intelligenza della popolazione è aumentato (fenomeno noto come “effetto Flynn”). Ciò è dovuto a vari fattori, tra cui un ambiente sociale e intellettuale più stimolante, il protrarsi e l’intensificarsi degli studi scolastici, le sfide intellettuali lanciate quotidianamente dalla società (attraverso libri, giornali, inchieste eccetera), i progressi della Scienza dell’educazione e, infine, la maggiore attenzione dei genitori nel curare il livello e la qualità dell’apprendimento dei loro figli.

Insomma, la società lavorava per l’intelligenza della popolazione. Fino alla notizia shock del 2016, a cui stranamente si dette scarsa risonanza. Un nuovo studio condotto da Richard Flynn e da un suo collega mostrò che tra il 1990 e il 2009 il Q.i. aveva cominciato lentamente ma inesorabilmente a calare. Un calo costante che, oggi, è diventato vero e proprio tracollo, se pensiamo alla percentuale di persone afflitte dal cosiddetto analfabetismo funzionale (sanno leggere, ma non capiscono il senso né sono in grado di rielaborarlo e spiegarlo). Le cause di questo tracollo sono molteplici, come sempre, ma una emerge su tutte le altre: la comparsa di nuove tecnologie digitali che, specialmente nel caso dei più giovani, rappresentano un potentissimo e pervasivo elemento di degradazione delle facoltà cognitive, emotive e relazionali.

E dire che l’uomo, fra le creature più deboli fisicamente e povere di istinti di tutto il pianeta, ha un bisogno fondamentale della propria intelligenza, perché è con essa che riesce a sopperire ai limiti di cui sopra e adattarsi alle insidie del mondo esterno. Il processo che consiste nell’immagazzinare dati, creando così la memoria, per poi elaborarli creando un ordine di senso con cui “afferrare” le cose del mondo, si chiama apprendimento. Il fatto che ogni individuo impari il processo di cui sopra in maniera funzionale e singolare, rende possibile la formazione di un pensiero “autonomo e critico”, che significa non meccanicamente generato da dogmi superiori né passivamente omologato alle “leggi” imposte da un regime.

Il guaio è che oggigiorno è l’Intelligenza Artificiale a occuparsi del processo di immagazzinamento, memoria ed elaborazione dei dati, con l’intelligenza umana ridotta a svolgere un ruolo ausiliario e sempre più ininfluente. Ecco cosa scrive a tal proposito il neurobiologo Laurent Alexandre, a pagina 73 del suo La guerra delle intelligenze. Intelligenza artificiale contro intelligenza umana, EDT, Torino 2017: “Laddove il libro favoriva una concentrazione duratura e creativa, Internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto di piccoli frammenti d’informazioni provenienti da fonti diverse. Un’evoluzione che ci rende più che mai dipendenti dalle macchine, assuefatti alla connessione, incapaci di procurarci un’informazione senza l’aiuto di un motore di ricerca, dotati di una memoria difettosa e alla fine più vulnerabili a manipolazioni di ogni sorta”.

Spogliati da ogni pregiudizio o istinto reazionario, bisognerebbe riflettere su tutto questo prima di aderire acriticamente alle politiche di diffusione entusiasta delle nuove tecnologie presso i ragazzi. Penso, solo a titolo di esempio, alla recente campagna “Digitali e uguali”, promossa dal gruppo editoriale Gedi, guarda caso in collaborazione con una nota impresa che vende prodotti rigorosamente online. L’iniziativa è eticamente ineccepibile (dotare di un computer ogni ragazzo nell’epoca della Didattica a distanza), ma condotta con finalità economiche più che pedagogiche. Non contesto le ragioni economiche, perché sebbene il comparto delle imprese online sia l’unico che sta facendo riscontrare profitti enormi in questa epoca di lockdown, la cosa è perfettamente legittima.

Quanto piuttosto dovrebbe allarmare l’entusiasmo acritico con cui la nostra società, con tanto di testimonial illustri (le luci della ribalta hanno un prezzo), non si preoccupi per nulla dei danni irreparabili che l’abuso di queste nuove tecnologie provoca sui giovani. Mi può stare anche bene l’idea di un computer a “testa”, ma vorrei che si spendessero energie (e finanze) anche per occuparsi della qualità di quelle “teste”, quando in realtà si spendono cifre astronomiche per potenziare l’Intelligenza Artificiale e quasi più nulla per quella umana. A farlo dovrebbe essere un mondo politico e sociale seriamente interessato alla formazione cognitiva dei propri cittadini, e non appiattita sulla logica finanziaria di chi, per tante ragioni, sembra interessato soltanto a crescere quelli che Charles Wright Mills chiamava i “docili robot”...

domenica 21 marzo 2021

Varoufakis contro Draghi: chiederà alla mafia di riorganizzare la giustizia?

 

Fonte: WSI 11 Marzo 2021, di Mariangela Tessa

 

Pesante affondo di Yanis Varoufakis sul governo Draghi. In un post pubblicato ieri su Twitter, l’ex ministro delle Finanze greco non ha risparmiato critiche sulla decisione presa dall’esecutivo italiano di coinvolgere la società di consulenza direzionale McKinsey nella redazione del Recovery plan:

“Così prevedibile e così triste: Mario Draghi incarica McKinsey di organizzare la distribuzione dei soldi del Recovery fund. Quale la prossima mossa? Affidare alla mafia la riorganizzazione del ministero di Giustizia?"

Come inevitabile il post ha scatenando un’ondata di critiche tra i follower – ne ha circa un milione – e di molti utenti italiani.

“La prossima cosa da fare sarà quella di assumere Varoufakis come esperto di diritto fallimentare”, osserva ironicamente Salvo Cozzolino.

“Ci dispiace molto che voi non abbiate avuto una persona come Mario Draghi nel 2011 in Grecia”, commenta un altro utente.

“Altro che Mafia. Dopo aver sperimentato Varoufakis & Co. al governo, i greci preferito avere come Primo ministro un ex dirigente di McKinsey come Kyriakos Mitsotakis”, fa notare il giornalista Luciano Capone.

Varoufakis: per il ministro Franco McKinsey avrà un ruolo editoriale

E per spazzare via i dubbi sul ruolo dell’incarico attribuito alla società di consulenza McKinsey, la scorsa settimana, nel corso di audizione parlamentare, il ministro dell’Economia Daniele Franco è tornato sulla vicenda, ribadendo che nessuna società privata avrà alcun ruolo decisionale né accesso ad informazioni privilegiate.

Franco ha ricordato come sia prassi diffusa tra governi ed istituzioni europee ricorrere ai servizi offerti da queste e società e come anche palazzo Chigi abbia in essere da tempo.

Il ministro è poi sceso più nel dettaglio su quelli che sono i compiti attribuiti a McKinsey con contratto da 25mila euro + Iva. L’incarico, ha detto il ministro

“riguarda aspetti metodologici nella redazione del piano, aspetti più editoriali che di sostanza e senza nessuna intromissione nelle scelte. L’importo è del resto coerente con un lavoro di questo tipo”.

Franco ha infine aggiunto:

“Questo perché le strutture pubbliche a volte hanno bisogno di input specialistici per affrontare alcuni specifici lavori, tipicamente se uno deve fare delle presentazioni di slides a volte ci sono persone molto più efficaci a farlo di quanto possano esserlo dirigenti o funzionari pubblici che hanno altre competenze e qualità”.

martedì 16 marzo 2021

Recovery plan, i giornali lodano le schede “di Draghi”. Giovannini chiarisce: “Sono quelle del Conte 2.

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano  | 16 Marzo 2021

Non, non è il “Recovery plan targato Draghi” come ha scritto qualcuno. Non entra “molto più in profondità nei singoli filoni di spesa”, come ha sostenuto Il Sole 24 Ore. E anche “la proroga del superbonus edilizio al 2023″ è semplicemente una delle ipotesi vagliate dal governo precedente. Perché il documento con le schede tecniche sui progetti del Recovery plan inviato al Parlamento la scorsa settimana è quello scritto dal Conte 2 prima della crisi, come ha spiegato Il Fatto Quotidiano. E come, del resto, aveva chiarito il ministro dell’Economia Daniele Franco, annunciando l’invio alle Camere delle note tecniche “che noi ministri abbiamo ricevuto nel passaggio di consegne”.

Il frutto degli sforzi della nuova cabina di regia del Mef guidata da Carmine Di Nuzzo non si è ancora visto, dunque, e di sicuro non è contenuto in quelle pagine si cui pure molti hanno dato conto come si trattasse di una riscrittura in cui “per la prima volta ci sono obiettivi, tempi, costi e una serie di dettagliatissime tabelle”(Libero Economia).

A fare chiarezza ci ha pensato il ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, che martedì in audizione alle commissioni riunite Ambiente e Trasporti della Camera ha dovuto non solo ripetere il concetto – “Il Parlamento ha ricevuto la bozza del Pnrr preparata dal precedente Governo e il ministro Franco ha fatto pervenire al Parlamento le schede tecniche” – ma anche precisare che “quelle schede erano anche antecedenti alla selezione che il precedente governo ha fatto in sede di bozza di Pnrr approvata e trasmessa al Parlamento. E’ importante questa sottolineatura perché avrete visto in quella lista delle opere che in realtà il precedente governo aveva già escluso“. Nota quanto mai necessaria visto che Il Tempo tre giorni fa ha titolato: Funivia Casalotti Boccea, Mario Draghi mette le ali a Virginia Raggi: il progetto pagato dal Governo. Ma quella di finanziare con il Recovery la funivia cara alla sindaca M5s era solo una delle centinaia di richieste planate sulle scrivanie dei ministri durante il Conte 2 e non recepite nella versione del piano approvata in cdm a gennaio.

sabato 13 marzo 2021

Vaccino Covid, l’Ue predilige i profitti delle multinazionali contro la vita

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Fabio Marcelli Giurista internazionale Mondo - 13 Marzo 2021

Non ci sono parole per definire la prevedibile scelta dell’Unione europea di anteporre i profitti delle multinazionali chimico-farmaceutiche ai diritti alla salute e alla vita dei suoi cittadini e di quelli del pianeta più in generale. Questa infausta presa di posizione segna l’epilogo definitivo di una tristissima vicenda e il naufragio delle speranze malriposte da qualche troppo ingenuo o troppo furbo politicante nei confronti della signora Ursula von der Leyen.

Il punto decisivo è stato la scelta di respingere la proposta formulata da India, Sudafrica, Venezuela ed altri Stati di derogare, di fronte al dilagare della pandemia Covid e delle sue micidiali varianti, al regime di difesa rigida della proprietà intellettuale delle multinazionali che possiedono i brevetti relativi ai vaccini da impiegare contro il Covid. La proposta era stata formulata in seno all’Organizzazione mondiale del commercio ed è stata respinta coi voti di tutto l’Occidente capitalistico, Stati Uniti e Unione europea in prima fila, che hanno goduto dell’appoggio determinante del presidente brasiliano Bolsonaro, deferito alla Corte penale internazionale qualche tempo fa per l’effetto genocida delle sue deliberate e scellerate politiche di minimizzazione del rischio rappresentato dalla pandemia in corso, che sta mietendo milioni di vittime in tutto il pianeta e ne ha provocate, ad oggi, oltre 270mila nel suo Paese.

E’ evidente come l’ostacolo rappresentato dai brevetti impedisca la produzione del vaccino in tutto il mondo e quindi una risposta adeguata specialmente da parte dei Paesi più poveri e bisognosi, dato che i vaccini sono concentrati nelle aree più ricche del pianeta. Dato il carattere contagioso del virus, si tratta non solo di un attacco alla vita e alla salute altrui ma anche a quelle proprie.

La Commissione europea aveva del resto da tempo dimostrato la propria totale subalternità alle lobby farmaceutiche, concludendo accordi fallimentari e per di più secretati in loro clausole essenziali, colle multinazionali attive nel settore, che avevano poi deciso e continuano a decidere di dirottare i propri prodotti, comunque insufficienti rispetto agli enormi bisogni esistenti, su offerenti migliori e disposti a pagare prezzi più elevati. Per non parlare delle davvero allarmanti notizie relative alla stessa sicurezza dei vaccini, su cui hanno aperto da ultimo delle inchieste alcune Procure italiane.

Come da tempo denunciato, siamo completamente in balia di organizzazioni guidate dall’esclusivo proposito di aumentare i propri già enormi profitti e non già da quello di debellare il virus in nome del bene comune e del diritto alla salute e alla vita di tutti gli abitanti del pianeta. Esistono già oggi alternative praticabili, come i vaccini cinesi, cubani e russi, ma il bieco servilismo atlantico dei governi europei e di quello guidato da Mario Draghi in particolare impedisce di ricorrervi.

E’ infatti evidente come il governo Draghi, che ha enunciato l’atlantismo e l'”europeismo” (alla von der Leyen & C.) come fari ispiratori della propria politica estera, si asterrà dall’intraprendere cooperazioni indispensabili nel campo della ricerca e della produzione di vaccini ed altri presidi sanitari necessari a combattere la pandemia colla Cina, colla Russia e con Cuba, salvo poi permettere che determinate proprie appendici stremate ricorrano alle brigate mediche cubane, com’è avvenuto in Lombardia e Piemonte in primavera, ma già ce ne siamo dimenticati.

Nei tragici attuali frangenti del dilagare della pandemia si conferma l’irriducibile antinomia fra il capitalismo, specie quello delle rendite, sia finanziarie sia legate alle privative industriali e alla proprietà intellettuale, da un lato e la vita dall’altro. La Commissione europea continua a scegliere di privilegiare il capitalismo contro la vita, dato il peso delle lobby che da tempo immemorabile infiltrano le istituzioni di Bruxelles e ne condizionano l’agire quotidiano, nonché quello del credo neoliberista che pervade fino al midollo i leader di quest’Europa, con in testa la von der Leyen, Macron, Merkel e Draghi. Camicie di forza asfissianti che vanno distrutte al più presto, prima che distruggano la nostra vita e la nostra salute.

Capitalismo ed atlantismo vanno superati, derogando ai brevetti e instaurando una vera e propria cooperazione globale affinché tutte le energie del pianeta siano dedicate a sconfiggere il virus, come richiesto del resto dall’Organizzazione mondiale della sanità. Non è questa a quanto pare l’opinione di lorsignori, interessati più a contare i quattrini che entrano in tasca a Big Pharma che le vittime che continuano a morire come mosche in tutto il mondo ogni giorno.

mercoledì 10 marzo 2021

“In un anno arretrata la speranza di vita guadagnata in un decennio”.

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano | 10 Marzo 2021

 

I 100mila morti per Covid in Italia all’8 marzo sono la fotografia dello tsunami che il coronavirus ha scatenato sulle nostre vite. Un’onda travolgente che ha investito anche il futuro. La pandemia “ha annullato, completamente nel Nord e parzialmente nelle altre aree del Paese, i guadagni in anni di vita attesi maturati nel decennio. È un arretramento che richiederà parecchio tempo per essere pienamente recuperato”, afferma il decimo Rapporto Bes dell’Istat sul benessere equo e sostenibile, rilevando che nel 2010 la speranza di vita alla nascita era di 81,7 anni, nel 2019 di 83,2 e nel 2020 il dato è sceso a 82,3. Gli indicatori hanno registrato impatti particolarmente violenti su alcuni progressi raggiunti in dieci anni sulla salute, annullati in un solo anno” ha detto il presidente Istat, Gian Carlo Blangiardo. Del resto i morti per il virus il doppio di quelli di Aids, 34 volte quelli del terremoto dell’Irpinia, 50 volte quelli del Vajont, 300 volte quelli de l’Aquila. Solo per far un paragone con eventi che sono impressi nella memoria collettiva.

Nel 2020 il 44,5% della popolazione esprime un voto tra 8 e 10 sulla soddisfazione della propria vita, in leggero aumento rispetto all’anno precedente (43,2%). Si mantengono le differenze territoriali, con una maggiore percentuale di soddisfatti al Nord (48,4%), quasi quattro punti percentuali in più della media nazionale, e livelli più bassi al Centro e nel Mezzogiorno (43% e 40%). Nel nostro Paese la soddisfazione per la vita rimane diseguale non solo tra territori ma anche per titolo di studio conseguito, età e, sia pure in misura minore, tra uomini e donne.

E nel periodo in cui l’emergenza provocata dalla pandemia ha costretto alla chiusura delle scuole di ogni ordine nelle zone rosse non può non preoccupare la riflessione sui dati che mostrano le diseguaglianze nello studio: “In Italia, nonostante i miglioramenti conseguiti nell’ultimo decennio, non si è ancora in grado di offrire a tutti i giovani le stesse opportunità per un’educazione adeguata. Il livello di istruzione e di competenze che i giovani riescono a raggiungere – prosegue – dipende ancora in larga misura dall’estrazione sociale, dal contesto socio-economico e dal territorio in cui si vive. La pandemia del 2020, con la conseguente chiusura degli istituti scolastici e universitari e lo spostamento verso la didattica a distanza, o integrata, ha acuito le disuguaglianze”.

L’8% dei bambini e ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado è rimasto escluso da una qualsiasi forma di didattica a distanza. Tale quota sale al 23% tra gli alunni con disabilità. Del resto un terzo delle famiglie in Italia non dispone di un accesso ad internet da casa e di almeno un computer. Il rapporto descrive comunque come “notevolmente migliorata” la situazione della transizione digitale dell’Italia nell’ultimo decennio: la percentuale di famiglie con accesso alla banda larga è passata dal 10% del 2011 all’88,9% del 2019. “Nonostante i progressi – spiega il rapporto -, l’Italia si trova però ancora leggermente al di sotto della media europea. L’infrastruttura per la banda larga non è più sufficiente a coprire le esigenze di connessione attuali, cosicché si è ritenuto necessario investire su una connessione più veloce, cioè la banda ultralarga”.

In generale il “divario con l’Europa sull’istruzione continua ad ampliarsi: nel secondo trimestre 2020 il 62,6% delle persone di 25-64 anni ha almeno il diploma superiore (54,8% nel 2010); tale quota è inferiore alla media europea di 16 punti percentuali. Tra i giovani di 30-34 anni il 27,9% ha un titolo universitario o terziario (19,8% nel 2010) contro il 42,1% della media Ue27″, sottolinea l’istituto di statistica.

Nel secondo trimestre 2020 sale poi al 23,9% la quota di giovani di 15-29 anni che non studiano e non lavorano (Neet), dopo alcuni anni di diminuzioni (21,2% nel secondo trimestre 2019). Incide particolarmente la componente dovuta all’inattività, specie nelle regioni del Centro-nord, dove la ricerca di lavoro ha subito una brusca interruzione dovuta alla pandemia. In Italia l’aumento è stato più accentuato rispetto al resto d’Europa, accrescendo ulteriormente la distanza (+6 punti percentuali nel secondo trimestre del 2010, +10 punti nel 2020). Altrettanto alta è la quota di giovani che escono prematuramente dal sistema di istruzione e formazione dopo aver conseguito al più il titolo di scuola secondaria di primo grado (scuola media inferiore). Nel secondo trimestre 2020, in Italia, il percorso formativo si è interrotto molto presto per il 13,5% dei giovani tra 18 e 24 anni, valore in netto calo rispetto al 2010 ma pressoché stabile dal 2017.

sabato 6 marzo 2021

Rispunta la “task force” ma questa volta a pagamento..

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano | 6 Marzo 2021

 

“La task force di Conte è una pazzia” tuonava prima di Natale Matteo Salvini. “No alle task force, sì al Mes” gridava Matteo Renzi solo lo scorso dicembre. Tre mesi dopo non abbiamo il Mes ma abbiamo una nuova task force, solo che è fatta di consulenti esterni e quindi a pagamento. Il governo Draghi ha scelto infatti di affidare alla statunitense McKinsey la consulenza per la messa a punto del Recovery plan per l’utilizzo dei fondi europei. Eppure la lista di chi ha polemizzato contro la formula della task force, uno sui punti su cui più se battuto per attaccare il governo Conte, è lunghissima. “Un modo per aumentare poltrone e consulenze”, secondo Teresa Bellanova. “Inutile spreco”, “No all’ennesima inutile task force” sono alcune delle dichiarazioni di alcuni esponenti del Partito democratico. Antonio Misiani, senatore Pd, in mattinata ha invitato Draghi a non disattendere l’impegno: “La governance del Pnrr è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti aveva detto Draghi al Senato. Se lo schema è cambiato, va comunicato e motivato al Parlamento”, ha scritto su twitter.

La scelta del presidente del Consiglio non sembra in effetti delle più felici, quanto meno per la tempistica. A lungo McKinsey è stata considerata la più prestigiosa società al mondo nel suo campo, che è poi quello di suggerire ad aziende e governi come aumentare i profitti e ridurre le spese. Ma negli ultimi tempi nubi sempre più cupe si stanno addensando sulla società statunitense. Dal coinvolgimento nella crisi dei farmaci oppioidi negli Usa, agli stretti legami con regime autoritari come quello dell’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salaman, il principe ereditario implicato nell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.


Il ruolo nella tragedia degli oppioidi – La reputazione di MkKinsey è così compromessa da aver spinto due dei più importanti quotidiani del mondo, il New York Times e il Financial Times a pubblicare editoriali in cui si invita la società ad agire per arginare la progressiva erosione di credibilità. Il mese scorso la società ha patteggiato una multa da quasi 600 milioni di dollari con 47 stati americani per il ruolo avuto nella crisi dei farmaci oppioidi. “Hanno messo il profitto davanti alla vita delle persone”, ha detto Phil Weiser, procuratore generale del Colorado, uno degli stati più colpiti. McKinsey è stata infatti per 15 anni consulente della casa farmaceutica Purdue che commercializzava il farmaco OxyContin. Si stima che la dipendenza da questo medicinale abbia causato sinora la morte di 232mila persone. McKinsey ha suggerito tra l’altro di aumentare il dosaggio delle singole pillole per incrementare i guadagni e ha fornito indicazioni di marketing su come neutralizzare gli appelli contro la commercializzazione del medicinale delle madri di ragazzi morti per overdose di OxyContin.

“Risparmiare sul cibo per i migranti” – Tra i tanti carichi assunti dalla società c’è stato anche quello di consulente dell’ Immigration and Customs Enforcement (ICE), ente statunitense che si occupa della gestione dei flussi migratori. Incarico per cui la società ha incassato 20 milioni di dollari. Nelle sue raccomandazioni per gestire al meglio le strutture di accoglienza McKinsey ha proposto tra l’altro di risparmiare sul cibo per i migranti e di inviarli in zone rurali del paese per minimizzare la spesa. Un trattamento che ha messo a disagi molti funzionari della struttura. Il contratto si è interrotto nel 2018 dopo che il New York Times ha pubblicato un’inchiesta sulle disastrose condizioni dei centri di accoglienza.

L’associazione no profit di giornalismo investigativo ProPublica ha creato una pagina web in cui sono raccolti tutti i disastri riconducibili al ruolo avuto da McKynsey. Molto si capisce già da titoli come “New York ha pagato milioni a McKinsey per un piano per ridurre la criminalità che invece è aumentata”. Il sito ricorda anche come nell’ultimo anno la società abbia fatto incetta di contratti per aiutare i governi a rispondere alla pandemia e tracciare i contagi, con risultati molto discutibili.

Arabia e Sudafrica – Nel 2016 McKynsey ha perso molti dei suoi clienti in Sud Africa dopo essere stata coinvolta in una vicenda di corruzione che ha portato alle dimissione del capo del governo di Pretoria Jacob Zuma. McKinsey aveva infatti stretto un alleanza con la società di consulenza Trillian della famiglia sudafricana Gupta che ha sfruttato le sue relazioni con Zuma per accaparrarsi illegittimamente commesse da 1,6 miliardi di dollari. McKinsey ha accettato di restituire al governo sudafricano 100 milioni di dollari e si è pubblicamente scusata con la popolazione del paese. Dal 1974 è presente in Arabia Saudita con un ruolo che è andato via via crescendo nel corso degli anni. Fino alla messa a punto nel 2015 il documento “Saudi Arabia beyond oil” commissionato dal principe Mohammed Bin Salman e in cui si suggerisce come reinventare l’economia saudita spezzandone la dipendenza dal petrolio.

Il disastro Enron del 2002 – Non che anche in tempi meno recenti McKinsey non sia stata protagonista di vicende poco edificanti. Basti ricordare il crack del colosso dell’energia statunitense Enron del 2002. Fu proprio McKinsey ad aiutare Enron a “reinventarsi” da gruppo che vendeva energia e gestiva gasdotti a società specializzata nella speculazione sui prezzi energetici utilizzando sofisticati strumenti finanziari. Del resto lo stesso numero uno di Enron Jeff Skilling proveniva da McKinsey. Finì malissimo: bancarotta, 20mila persone per la strada e senza pensione e Skilling condannato a 24 anni di prigione. Il crack spazzò via dal mercato la storica società di revisione Arthur Andersen incaricata di controllare i bilanci di Enron, mentre McKinsey riuscì a defilarsi quasi indenne, grazie soprattutto agli accordi che abitualmente firma con i suoi clienti in cui specifica che quelle fornite sono “semplici opinioni”.


Il mercato globale della consulenza vale circa 150 miliardi di dollari all’anno, McKinsey non diffonde dati ufficiali sui suoi ricavi, che vengono comunque stimati intorno ai 10 miliardi di dollari. Al primo posto davanti a Boston Consulting che si ferma a 8,5 miliardi. Il gruppo ha una lunga tradizione di “porte girevoli” con governi e grandi aziende. Il ministro per l’Innovazione digitale e la transizione ecologica Vittorio Colao è ad esempio uno dei tanti “ex”

mercoledì 3 marzo 2021

Contagi e vaccini, vi racconto le differenze abissali tra Italia e Regno Unito

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società - 28 Febbraio 2021 Loretta Napoleoni

Dopo un lungo e durissimo lockdown londinese e la prima vaccinazione sono rientrata in Italia per alcune settimane. La cronistoria del mio viaggio e di ciò che ho visto di certo non fa notizia, ma ho pensato di raccontarla per illustrare le differenze abissali tra l’Italia ed il Regno Unito in materia di gestione del Covid e vaccinazioni.

La prima cosa che balza agli occhi quando si atterra in Italia è la confusione di ordinanze. Non esiste una regola applicata a tutta la nazione, ma tante, diverse, in costante cambiamento a livello regionale, provinciale e persino comunale. E questo è un male perché la gente si perde e finisce per non sapere cosa deve fare. In secondo luogo, in Italia si riempiono moduli su moduli che nessuno ha idea se servano davvero o se finiscano nel riciclaggio della carta, ma alla fine c’è poco controllo dei movimenti. Infine, a differenza del Regno Unito, in Italia si ha la netta sensazione che il virus non sia poi così pericoloso, che il peggio sia passato e quindi sia giusto riprendere le vecchie abitudini.

Faccio un esempio: in aereo da Londra non c’erano inglesi, a loro è vietato viaggiare, mentre a noi italiani è permesso grazie al nostro passaporto. Atterrati a Milano, come di prassi, la British Airways ha specificato che avrebbero sbarcato per file, hanno chiamato le prime sei, io ero alla undicesima e diverse persone intorno a me si sono alzate. Quando ho fatto notare che non era il nostro turno sono stata aggredita. Un signore che mi aveva riconosciuta, anche se avevo due mascherine, ha urlato che mi ha sempre detestata perché scrivo per questo giornale.

Sul bus e in fila per il controllo passaporti nessuno ha mantenuto la distanza sociale, erano tutti belli appiccicati gli uni agli altri, pronti per schizzare fuori dall’aeroporto. Alla fila per il tampone le solite lamentele, e quando la polizia ha fatto passare una famiglia con un bambino piccolo sono partite le occhiate di disapprovazione. Nessuno a Linate ha voluto vedere i risultati del mio tampone londinese, né il certificato di vaccinazione, ma si sono presi l’autocertificazione senza neppure leggerla; quando ho chiesto quando avrei avuto i risultati del tampone che mi stavano facendo, mi hanno risposto “se è negativa mai”. E così, sono uscita dall’aeroporto. Perché vivo nel Regno Unito da quarant’anni non mi è neppure passato per la testa di non fare la quarantena. Nessuno però ha controllato, né chiamato, avrei potuto infischiarmene, insomma!

Finita la quarantena sono andata a vedere cosa succede nelle stazioni sciistiche della Lombardia, che sono aperte fino a lunedì. Nel weekend fiumi di gente si sono riversati lungo le strade, bar strapieni fino alle 18:00; da quell’ora in poi quelli degli hotel si popolano dei loro clienti, nessuno controlla se con loro ci sono amici non residenti nell’albergo. Discorso analogo vale per i ristoranti degli alberghi dove i clienti mangiano ai tavoli decisamente non distanziati. E non potevano mancare tra i commensali i raccomandati del luogo, lascio alla vostra immaginazione la scelta di chi sono costoro.

Secondo punto cruciale: le vaccinazioni. Nel Regno Unito la politica perseguita da Boris Johnson è stata la seguente: lockdown totale, vaccinazione a tappeto e riapertura graduale dopo aver vaccinato tutti gli operatori sanitari, quelli che hanno più di 60 anni e chi è a rischio a causa di patologie specifiche. È chiaro che questo programma ha funzionato benissimo perché ci sono i vaccini. Ed è bene spiegare il motivo: ci sono perché, a differenza di Bruxelles, Londra li ha ordinati e pagati prima che venissero approvati dalle autorità preposte, ha rischiato e ne è valsa la pena. La storia che non ci sono vaccini a sufficienza perché le case produttrici li hanno venduti a caro prezzo, anche agli inglesi, è una frottola, in Italia come in Francia, Spagna e nel resto dell’Unione Europea i vaccini scarseggiano perché Bruxelles li ha ordinati tardi.

Anche per le vaccinazioni in Italia ci sono mille regole, a seconda delle regioni o di chi è a capo del governo, ma così non si va bene avanti. Di certo il fatto che io, 65enne, sia stata vaccinata a Londra un mese e mezzo fa e mia madre 88enne residente a Roma lo sarà il 30 marzo non depone a favore del sistema italiano. Tralascio l’assurdità di far prenotare gli ultra-ottantenni online, mi piacerebbe sapere quanti lo hanno fatto da soli… Nel Regno Unito il sistema è infinitamente più semplice: i medici di base chiamano le persone seguendo un ordine specifico, identico in tutto il paese. Le vaccinazioni vengono somministrate in posti diversi, dagli ambulatori agli stadi. Un sistema elettronico nazionale fa sì che, una volta chiamati, ci si vaccini in 20 minuti: 5 per avere l’iniezione e 15 di osservazione, nel caso si verificasse uno shock anafilattico. Non si compila nessun documento, né si mostrano le tessere sanitarie, basta il nome, il cognome e la data di nascita e il sistema viene aggiornato. Si potrebbe anche parlare delle liste di attesa alle quali ci si può iscrivere per avere alla fine della giornata le dosi restanti dei vaccini, quelli che devono essere scongelati a 6 dosi alla volta, ad esempio.

Ma basta quanto detto per illustrare ai lettori perché le cose funzionano meglio nel Regno Unito e quali sono i veri problemi del contagio e delle vaccinazioni in Italia.

sabato 27 febbraio 2021

Ero certo che dopo il Covid tutto sarebbe tornato come prima: ora non ne sono più sicuro

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Federico Bastiani Società - 27 Febbraio 2021

 

Circa un anno fa, all’inizio della pandemia, scrissi una riflessione sul futuro della socialità. Osservando le Social street sparse per l’Italia, notavo una gran vivacità “on line”, vicini di casa che si sostenevano a vicenda, trovavano modi alternativi per stare insieme, per condividere. Concludevo il post dicendo che l’uomo è un animale sociale e che, finita la pandemia, tutto sarebbe tornato come prima inclusa la socialità che è innata nell’uomo. Dopo un anno non sono più tanto d’accordo con me stesso.

Stiamo vivendo grandi trasformazioni, molte forse le stiamo subendo, ma non sono per niente sicuro che finita la pandemia il mondo tornerà dove l’avevamo lasciato. Abbiamo scoperto che possiamo fare a meno dei cinema perché abbiamo le piattaforme streaming. Molte uscite di film sono state rimandate in attesa della riapertura delle sale cinematografiche, salvo poi adeguarsi e lanciare le “prime” direttamente on line.

Mi ero occupato delle “dark kitchens” prima della pandemia, ovvero la nuova tendenza dei “ristoranti virtuali”. Perché aprire un ristorante che ha costi di gestione elevati quando è possibile noleggiare dei container già attrezzati con cucine professionali ed annesso servizio di consegna a domicilio? In questo modo si sostiene solo il costo di noleggio della cucina ed uno o due impiegati, finito. Non esiste più l’esperienza della “sala”, del rito di andare al ristorante. Da un anno a questa parte, l’home delivery è esplosa.

Siamo sicuri che le nostre abitudini verranno ripristinate? Siamo consapevoli che dovremo portare la mascherina per molto tempo ancora. Ormai indossare la mascherina è diventato quasi un gesto automatico, una nuova normalità così come non dare più la mano, la pacca sulla spalla, quel contatto che ci “avvicinava” probabilmente non ci sarà più. Torneremo ad abbracciarci tranquillamente dopo aver subito un lavaggio del cervello sulla “pericolosità” del gesto? Sarà automatico tornare a rifrequentare i luoghi affollati? Non ne sono più sicuro.

Probabilmente anche la socialità così come la ristorazione, i cinema, la musica, le radio, subirà una trasformazione verso una nuova forma. In questi mesi ho parlato con moltissimi teenager e la quasi totalità di loro mi ha detto di essere contento di frequentare la scuola on line piuttosto che in presenza. Loro sono il nostro futuro e, forse, conviene osservarli per capire dove andrà il mondo. Il fenomeno degli hikikomori non è una novità. I ragazzi trascorrevano anche prima della pandemia più tempo nella vita virtuale che in quella reale, la pandemia ha solo amplificato il fenomeno. Dobbiamo capire in che modo questa condizione impatterà sulla socialità del futuro, sulle relazioni.

Ho provato a chiederlo al professor Robert Putnam, docente di Politiche pubbliche all’Università di Harvard, che ho avuto modo di conoscere anni fa quando scoppiò il fenomeno delle Social street. Il suo approccio è più ottimista del mio. “Nei primi mesi della pandemia, proprio come i primi anni dei social network, abbiamo vissuto una cyber euforia. Potevamo fare tutto on line, però, dopo un anno siamo passati al cyber pessimismo perché è chiaro che la Dad funziona per i privilegiati, o che vedere i nonni di persona è meglio che vederli su Zoom.” Sono trascorsi vent’anni da quando Putnam pubblicò Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community in cui analizzava i cambiamenti della società. “È difficile prevedere le conseguenze a lungo termine della pandemia così come lo fu quando scoppiò la peste, ma sono molto scettico che il nostro futuro potrà fare a meno delle relazioni face to face”.

Forse la pandemia gioca solo un piccolo ruolo sulla socialità del futuro, la pensa così uno dei più noti sociologi al mondo, Anthony Giddens. “La socialità è già influenzata da anni dalle nuove tecnologie, dall’Intelligenza Artificiale, per analizzare bene il fenomeno bisognerebbe districare ogni componente ed analizzarla, inclusa la pandemia, non è semplice”. Un po’ come gli acquisti on line, una tendenza in costante aumento che ha avuto un’impennata durante la pandemia. Anni fa, solo determinati acquisti si effettuavano on line, adesso non c’è cosa che non si possa gestire su internet. La pandemia ha funzionato da acceleratore e ha modificato alcune abitudini che probabilmente non verranno ripristinate. La socialità subirà lo stesso processo?

Paradossalmente sono proprio le tecnologie oggi a venirci incontro per ottenere una socialità “reale”. Le app di dating come Tinder hanno fatto registrare un boom di utenti. Con bar, discoteche, luoghi di aggregazione chiusi, la possibilità d’incontro è ridotta ai minimi termini e la tecnologia in questo caso viene in soccorso. Come per le Social street, dal virtuale al reale, lo strumento digitale diventa un modo per tornare lì dove tutto inizia, le relazioni. La pandemia rimescolerà le carte in tutti i settori, anche in quello sociale.

Quello che dobbiamo augurarci è che qualunque siano gli scenari futuri, il mimino comune denominatore sia sempre la parola “ubuntu”, quel legame universale di scambio che unisce l’umanità intera, sia esso virtuale o reale.

domenica 21 febbraio 2021

Perché è caduto Conte?

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Dopo due giorni di travolgente emozione, commozione, brividi e pelle d’oca per i Grandi Discorsi di Draghi tra Senato e Camera, sobriamente celebrati dalla maggioranza politico-mediatica modello Pyongyang come il ritorno di Demostene e Cicerone fusi insieme, è finalmente chiaro ciò che il governo farà di buono e giusto (tutto) e di cattivo e sbagliato (niente). Un solo interrogativo resta inevaso: perché è caduto il governo Conte-2? Breve catalogo di opzioni.

Incapace. Conte era un premier incapace con ministri scappati di casa provenienti da partiti incompetenti ed è stato travolto dal “fallimento della politica” e dalla “crisi di sistema”? Draghi governa coi partiti incompetenti che appoggiavano Conte (più Lega, Fi ecc.) e con 9 dei suoi ministri più due tecnici (Bianchi e Colao) che operavano con lui. Poi ci sono Brunetta, Gelmini, Giorgetti&C.

Recovery Plan. Conte aveva fallito sul piano, scritto coi piedi, in perenne ritardo e con una governance accentrata fra Mef, Mise e Affari Ue tipica dei dittatori, roba da cestinare e rifare da capo? Draghi dichiara al Senato che “il precedente governo ha già svolto una grande mole di lavoro sul Programma”, “finora costruito in base a obiettivi di alto livello” che ora “dobbiamo approfondire e completare, ma “le missioni del Programma resteranno quelle enunciate nei documenti del governo uscente”. Resta da fare ciò che due mesi di crisi impedirono a Conte di fare: “rafforzarlo per gli obiettivi strategici e le riforme che li accompagnano”. E la governance? Draghi l’accentra al Mef, molto più dell’accentratore Conte.

Pandemia. Conte ha fallito sulla gestione della pandemia, con le arlecchinesche Regioni a colori, le troppe chiusure, i ritardi sui vaccini, i disastri di Speranza, Arcuri e Cts? Draghi dichiara al Senato: “Ringrazio il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia”. Conferma Speranza, il Cts e probabilmente Arcuri. E sui vaccini – salvo che riesca a fabbricarli in proprio – attende anche lui notizie dalla Commissione europea, quella dei competenti che si son fatti fregare dalle case farmaceutiche con contratti suicidi.

Prescrizione. Conte ha fallito perché non voleva cancellare la blocca-prescrizione di Bonafede? Draghi non la nomina, la Cartabia la rinvia a data da destinarsi e gli emendamenti contrari vengono ritirati da Fi, Iv, Azione e +Europa che fino all’altroieri li ritenevano urgentissimi e decisivi.

Giustizia. Conte, presentando al Senato il suo secondo governo, annunciò “una riforma della giustizia civile, penale e tributaria, anche attraverso una drastica riduzione dei tempi”.

E si dilungò sulla lotta alla mafia. Draghi promette di “aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile”; di penale e di mafia non parla, se non in replica; e aggiunge che la giustizia deve rispettare “garanzie e principi costituzionali che richiedono a un tempo un processo giusto e di durata ragionevole”. Ovvietà copiate dall’art. 111 della Costituzione e dai discorsi degli ultimi 30-40 predecessori. Per sua fortuna la relazione Bonafede, su cui è caduto il Conte-2, già prevede 16 mila nuovi assunti nei tribunali con 2,8 miliardi del Recovery.

Carceri. Conte non fece nulla contro il sovraffollamento delle carceri, Draghi sermoneggia fra le standing ovation sulle “carceri, spesso sovraffollate” e su chi ci vive “esposto al rischio della paura del contagio e particolarmente colpito dalle misure contro la diffusione del virus”. Ma il rischio Covid è molto più alto fuori che dentro (in un anno 12 morti in carcere su 100mila detenuti passati per le celle, contro i 95.223 morti fuori su 60 milioni: 0,00012% contro 0,00015); e Bonafede nell’anno del Covid ha ridotto l’affollamento dai 61mila presenti a marzo ai 52.515 di oggi.

Mes. Gli incompetenti Conte e Gualtieri, per compiacere la follia dei 5S, rifiutavano i 36 miliardi del Mes? Il competentissimo Draghi manco lo cita e chi lo invocava un giorno sì e l’altro pure – FI, Iv&giornaloni – ha improvvisamente deciso che non serve più.

Ponte sullo Stretto. Vedi Mes, una prece.

Scuola. Conte ha fallito sulla scuola per colpa dell’incompetente Azzolina? Draghi nomina ministro Bianchi (già capo della task force dell’Azzolina); promette di “tornare rapidamente a un orario scolastico normale” (difficile, con l’aumento dei contagi con varianti Covid) e di “recuperare le ore di didattica in presenza perse” con le scuole aperte fino a giugno. Ma questo l’aveva già detto la Azzolina che, dopo aver garantito in piena pandemia un numero di ore in presenza superiore alla media Ue (dati Unesco), vede elogiare la Dad da lei inventata un anno fa come “notevole e rapida” nella kermesse mondiale Google Education, in corso negli Usa.

Ambiente. Conte non era abbastanza ambientalista? Draghi ha dato fondo a tutti gli slogan sul tema. Conte già nel settembre 2019 parlò di “transizione ecologica”, “riconversione energetica, fonti rinnovabili, biodiversità dei mari, dissesto idrogeologico, economia circolare” e stop alle trivelle. E disse le stesse cose che avrebbe detto Draghi 17 mesi dopo anche su fisco, pagamenti elettronici, Sud, atlantismo, europeismo, ricerca, Pa, digitalizzazione e migranti.

Quindi il giallo del premiericidio senza movente rimane irrisolto: perché è caduto il governo Conte?

domenica 14 febbraio 2021

In Italia torna l’élite e all’estero non capiscono. Di certo la luna di miele con Draghi sarà breve

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Loretta Napoleoni Economia Occulta - 14 Febbraio 2021


Viene spontaneo chiedersi se l’unico modo per unire l’arco politico sia mettere il paese in mano a quell’élite ‘tecnica’ che come un’ombra è sempre vicinissima alla politica, una élite che fa carriera in parallelo alla classe politica, che entra ed esce dal settore privato e dalle grandi istituzioni e che, proprio per questo, può fare ora da ponte tra politica e alta finanza ora da timoniere dell’intera nazione. L’effetto magico Mario Draghi conferma tutto ciò. Però stiamo attenti, anche se nell’euforia collettiva prodotta da un presidente del Consiglio super-tecnico, che non comunica attraverso i social ed è conosciuto nel mondo, gli italiani si sono dimenticati di come è stato messo alla porta il premier precedente, nel resto del pianeta ci si chiede ancora che diavolo sia successo in Italia nelle ultime due settimane.

In primis, perché è caduto il governo? Bella domanda che mi è stata fatta in diversi programmi radiofonici britannici. Impossibile dare una risposta beve, bisogna spiegare chi è Matteo Renzi, come diavolo ha fatto ad essere stato eletto con il Pd ed a far cadere un governo di coalizione sostenuto dal Pd; come ha fatto a formare un suo partito in Parlamento di cui nessuno, ma proprio nessuno fuori dei confini italiani ne conosce l’esistenza; perché Renzi ha ritirato i suoi ministri, che cosa aveva fatto Conte per beccarsi questa pugnalata a febbraio e non a dicembre o novembre? E così via.

Per chi ama la dietrologia c’è solo l’imbarazzo della scelta, la teoria più gettonata è la seguente: esisteva un piano ben stabilito per far cadere il governo Conte prima che questo mettesse le mani sui soldi in arrivo da Bruxelles. In effetti l’appoggio di tutti i partiti per Draghi, fatta eccezione di quello guidato dalla Meloni, sembra avvallare questa tesi. Un’altra interpretazione dietrologica vede la conversione europeista di Salvini e l’appoggio di Forza Italia come un do ut des in cambio dell’elezione di Berlusconi a presidente della Repubblica. Ma non è detto che da Palazzo Chigi Draghi non traslochi poi al Quirinale, in Italia tutto è possibile.

In secondo luogo, perché Mattarella non ha dato l’incarico a Conte? In fondo il governo Conte aveva ottenuto la fiducia alle due Camere, quindi perché non chiedergli di formare un nuovo governo con nuovi schieramenti? Anche qui rispondere non è semplice, meglio buttarsi di nuovo sulla dietrologia. Bisogna prima di tutto spiegare che Mattarella fu uno degli uomini del governo Ciampi, anche lui ex governatore della Banca d’Italia e super tecnico; guarda caso Mario Draghi era ai tempi uno dei Ciampi’s boys, incaricato di svendere l’Italia dalla sua posizione al Tesoro negli anni Novanta al fine di entrare nell’euro… della tristemente famosa riunione sul Britannia non ne parliamo neppure, tutti sanno che a salirci a bordo per negoziare fu Draghi.

In terzo luogo, perché in Italia il presidente del Consiglio non è eletto? E già si sono accorti anche all’estero che il paese predilige gente che non è stata votata alle urne. Brutto segno che denota una sfiducia professionale nei confronti della politica – lo dice la frase di Mattarella ‘ci vuole un governo di altissimo livello’. Nel mondo democratico il livello massimo si trova in Parlamento, tra chi è stato eletto, altrimenti a che servono le elezioni? Se è meglio avere dei tecnici alla guida del paese allora perché eleggere un Parlamento? Ecco un’altra domanda che gli stranieri fanno spesso. All’estero sarebbe inconcepibile avere a capo del governo gente non eletta. Immaginate che all’indomani del crollo della Lehman Brothers la Corte Suprema scelga quale presidente il capo della Federal Reserve piuttosto che far decidere agli americani. Il motivo ci vuole un presidente di altissimo livello. Inconcepibile!

In quarto luogo, che fine ha fatto il Movimento 5 Stelle, quello che voleva modernizzare la democrazia italiana, quello anti-establishment che ha fatto sognare anche le nonne italiane? È stato fagocitato dalla macchina politica? Ha subito il fascino della poltrona? Oppure non è mai esistito? In fondo prima hanno accettato una coalizione con Salvini, poi con il Pd ed adesso con Berlusconi. Non è vero che Draghi è grillino, sono i grillini ad essere diventati come Draghi.

Si potrebbe andare avanti per ore ed ore in un gioco di domande e rispose surreali. Rimane un fatto importante: nonostante abbia fatto un buon lavoro nella gestione della pandemia, il governo è caduto perché non si voleva che distribuisse i prestiti in arrivo da Bruxelles. Draghi sicuramente sa cosa deve fare con quei soldi e proprio per questo la luna di miele del governo di coalizione nazionale sarà breve, anzi brevissima.

sabato 13 febbraio 2021

ostaggi delle lobby...

 

un merito i partiti c'è l'hanno: gettata definitivamente la maschera hanno mostrato il vero volto del potere reale, che non è il loro,  e quanto tenga in considerazione il sistema democratico che è finito, morto. Oggi ne registriamo il decesso dopo lunghissima agonia iniziata con la caduta del Mur di Berlino e la fine dei blocchi contrapposti.

Segnali c'erano stati ma i cittadini, ebbri dalla raggiunta fine della distruzione reciproca e inebriati dalla nuova libertà acquisita, non se ne sono accorti e hanno continuato nel loro folle percorso a bordo di un treno destinato ad andare a sbattere contro un muro.

Cassandre non sono mancate:tante o poche che fossero noi sordi al loro richiamo e anche se fossero riuscite a farsi sentire le abbiamo ignorate, e questi sono i risultati: siamo passati da 'i mercati insegneranno agli italiani per chi votare' a un più brutale 'non si vota e per giunta ingoiate un banchiere di goldman sachs imposto assieme a una squadra di esponenti di tante lobby difesi da un manipolo di politici che rappresentano il peggio della partitocrazia, vecchia e nuova.

Siamo passati da una democrazia zoppa a una post-democrazia: dove i 'migliori' e i 'lobbisti' governano a loro piacimento a fronte dell'impossibilità dei cittadini di esprimersi....

Levatrici del nascituro governo sono state vari personagi ma la responsabilità maggiore è dei pentastellati che hanno pervicacemente lavorato alla sua nascita anche mettendo in conto dolorosi abbadoni e questi manipolatori sulla loro piattaforma di voto: tutto pur di farlo passare e mettergli in tessta anche il proprio di cappello: non conta il fatto che lo fanno insieme al peggior ceto dirigente della ns pur triste storia e nemmeno conta che hanno permesso il ritorno al governo di personaggi che speravamo non vedere e sentire più; ma in questo paese, si sa, al peggio non c'è mai fine.. le profetiche parole di Barber (da cittadini a consumatori), in un suo saggio, risuonano come l'epitaffio di questo paese...

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