venerdì 7 giugno 2019

Ma la politica economica serve davvero all’economia?

Fonte: W.S.I. 2 Giugno 2019, di Luciano Martinoli

Partiamo dai fatti e oggi il fatto più rilevante e recente che possiamo analizzare sull’argomento, anche perchè iniziano ad esser noti gli effetti, è la politica dei tagli alle tasse voluti da Donald Trump.
Uno studio del Congressional Research Service, agenzia non partisan che lavora per il Congresso degli Stati Uniti, ha reso noto i risultati dei tagli del 2017 sull’economia americana del 2018.
In breve: l’economia statunitense l’anno scorso è sì cresciuta del 2,9% ma per la maggior parte a causa di fattori già in essere in precedenza. I lavoratori hanno ricevuto, dalle loro aziende, benefici marginali che ammontano a soli $28 a testa (molto meno degli 80 euro di renziana memoria). Inoltre l’incentivo al rimpatrio di $664 miliardi di capitali, concesso alle grandi corporation, ha scatenato un acquisto di azioni proprie per oltre $1.000 miliardi senza nessuna evidenza di aumenti di investimenti. Benefici ai lavoratori e maggiori investimenti erano gli obiettivi della manovra ma, come si vede dai numeri, tali obiettivi non sono stati raggiunti. Inoltre, per chi volesse giudicare in ogni caso positiva la crescita economica ottenuta, per assorbire il costo della manovra, realizzata con mancanza di incassi da parte dell’erario, la crescita sarebbe dovuta essere del 6,7% e non del 2,9% (chi volesse leggere il rapporto completo lo trova qui).
Dunque il presunto legame causale tra la politica e l’economia si è rivelato, ancora una volta, estremamente debole; così come pure la posizione “gerarchica” del sistema politico su quello economico (l’economia non “ubbidisce” alla politica). In altre parole ciò che la politica pensa di fare per l’economia, almeno in casi come questi, è di fatto solo un atto politico, e non un’azione di “governo” della prima, con effetti imprevedibili (spesso nulli o negativi) sull’economia stessa.
Facciamo un salto in Italia. Recentemente sono stato invitato alla presentazione di un libro sullo stato di salute del sistema economico italiano redatto da un illustre e rispettabile economista. Non faccio nomi per scongiurare il pericolo che le mie parole, le quali hanno l’obiettivo di generare un confronto costruttivo, possano essere invece interpretate, per mie incapacità espressive, come sterile critica, denigrazione o peggio.
L’esordio è stato dei più brillanti ed encomiabili e in netta contraddizione, basandosi su fatti numerici, rispetto allo strumentale ed endemico piagnisteo italico: avanzo primario positivo da 25 anni, leadership assoluta in numerose nicchie ad alto valore aggiunto, un debito privato quasi inesistente con una ricchezza degli italiani superiore al debito pubblico, considerando immobili e attività finanziarie.
Tutto questo grazie, come è stato giustamente rilevato, alla presenza di numerose aziende virtuose che hanno operato sui mercati globali per decenni, le famose multinazionali “tascabili”, e hanno dato il loro contributo alla ricchezza dello stato, con l’avanzo primario, e quello dei singoli, consentendo loro acquisto di immobili e accumulazione di denaro.
Successivamente si è passati a snocciolare le carenze della politica nostrana nei confronti dell’economia, incapace di comprenderla e, dunque, rappresentarla e stimolarla. Prima considerazione: oltre ad essere una ulteriore dimostrazione del legame molto “lasco” tra i due sistemi, visti i risultati forse, almeno finora, è stato meglio così!
Una politica incompetente ha fatto da stimolo positivo ad un’economia gagliarda, l’esatto contrario di quanto ci si aspettava, o almeno quello che si aspettano e raccontano i politici.
Mi si consenta, giunti a questo punto, alcune conclusioni sistemiche.
I sistemi politico ed economico, così come quello giuridico, scientifico, sanitario, educativo, ecc., sono sistemi sociali funzionali, ovvero ognuno assolve ad una specifica funzione. Sono autonomi e vedono gli altri sistemi come “ambiente” al quale si relazionano con “accoppiamento strutturale” e non in termini banali di input/output lineare. Questo vuol dire che una disposizione della politica per l’economia non verrà interpretata da questa come un “ordine” da eseguire nella sua interezza e completezza ma come una perturbazione alla quale l’economia risponderà secondo la propria struttura. Se la politica non conosce tale struttura, sempre cangiante e con operazioni che la ridefiniscono di continuo eseguite solo all’interno dell’economia stessa, gli interventi avranno effeti casuali e non causali; essi saranno inutili, dannosi, e solo raramente, e per caso, positivi.
Un’azienda, sopratutto quelle con un imprenditore in carne ed ossa ancora operante, non sempre decide, ad esempio, gli investimenti in base a supporti che gli vengono offerti di tanto in tanto, ma rispetto alle esigenze del mercato, dei suoi clienti. Se per caso i due momenti coincidono, offerta di benefici, in genere di stampo politico, ed esigenze per motivi di mercato (dunque economici e non politici), la cosa potrebbe anche funzionare se non ci si mettesse poi di mezzo la burocrazia, che è anch’essa un sistema sociale indipendente pure dalla politica, a rallentare e a rendere inefficace il tutto (come mi raccontava proprio recentemente un imprenditore di successo al sud, settore chimico trattamento acque, che invitato ad un bando per sostenere l’innovazione si è visto superare da progetti per “la lievitazione dei cornetti” e altre banalità scatendando la sua ira con conseguente comunicazione all’amministrazione, che lo aveva invitato, di non disturbarlo più).
Dunque se politica economica debba, e può, essere essa deve essere competente sull’economia ma non solo quella macro, anche quella dei singoli mercati che vuole stimolare, la strategia d’impresa di quelle virtuose, che i mercati li creano, e quelle meno virtuose, che i mercati li seguono, per incentivarle a fare meglio (o anche disincentivarle nelle loro attività per prevenire danni maggiori per la collettività). E sopratutto deve occuparsi in primis del buon funzionamento della macchina dello Stato in tutti i suoi aspetti, sopratutto quello fiscale e giuridico, che è la prima preoccupazione e richiesta di qualsiasi soggetto economico sano che ha consapevolezza che il suo successo dipende solo dai suoi clienti e non da altro.
Pochi e lontani i casi di interventi politici di successo sull’economia. Penso al piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale, caso di studio per il forte legame tra le componenti politiche ed economiche dei vari paesi che ne hanno consentito il successo. Ma un primo passo per migliorare questa situazione è certamente considerare la separazione dei due sistemi e l’impegno che la politica, ma anche degli economisti che fanno politica e non economia, deve profondere per una maggiore e più dettagliata conoscenza dell’economia al fine di creare accoppiamenti strutturali virtuosi.

giovedì 6 giugno 2019

Togliatti, Basso e Nenni: anche loro erano degli inconfessabili sovranisti

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società | 4 Giugno 2019 

La categoria di sovranismo viene liberamente impiegata dai pretoriani del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto per dissociare democrazia e sovranità e, insieme, per associare sovranità e dittatura. Eppure la sovranità, nel dopoguerra, era intesa come base del socialismo e della democrazia. In modo opposto, la rimozione della sovranità era assunta come base della perdita della democrazia e come baluardo del cosmopolitismo capitalistico. Palmiro Togliatti, in un intervento alla Camera dei deputati del 2 dicembre del 1948, difese strenuamente, come peraltro sempre avrebbe fatto, la sovranità nazionale, respingendo incondizionatamente il progetto della creazione di una federazione europea che si ponesse al di sopra delle sovranità nazionali: ciò avrebbe significato – sono parole di Togliatti – “non unire, ma scindere l’Europa”.
La forza con cui la guida del partito da lui fondato con Gramsci difendeva la sovranità nazionale contro le ingerenze statunitensi era la stessa con cui la tutelava da una decostruzione mediata dal mito dell’integrazione europea. Togliatti rigettava senza mediazioni la visione cosmopolitica, ravvisandovi la quintessenza dell’ideologia della classe dominante:
Il comunismo non ha nulla di comune col cosmopolitismo. […] Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l’internazionalismo proletario poiché l’uno e l’altro si fondano sul rispetto dei diritti, delle libertà, dell’indipendenza dei singoli popoli. È ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare la loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trust internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi.
Sono parole su cui dovrebbero meditare specialmente quanti, nel quadrante sinistro, confondono oggi l’internazionalismo proletario con il cosmopolitismo liberista.
Sempre nel 1948, Pietro Nenni, guida del Partito Socialista Italiano (PSI), si oppose fermamente ai progetti di federazione europea e di patto atlantico. Nel secondo caso, si sarebbe avuta una subordinazione dell’Italia alla monarchia del dollaro. Nel primo caso, invece, sarebbe stata “la Germania alla testa dell’Europa”, come Nenni ebbe ad asserire presso la Camera dei deputati il 30 novembre del 1948. Contro questa duplice eventualità, Nenni proponeva di “organizzare il paese in libera democrazia autonoma” e, dunque, sul fondamento della sovranità nazionale, intesa come ineludibile base del progetto democratico.
Tanto a Togliatti, quanto a Nenni e, ancora, a Lelio Basso era immediatamente chiara l’implicazione antidemocratica della sovranazionalizzazione dei processi decisionali, nonché, in modo convergente, la loro reale portata nel quadro del conflitto di classe. Così si pronunziò Basso alla Camera dei deputati, il 13 luglio del 1949:
L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.
Sia pure da prospettive e da inquadramenti politici reciprocamente irriducibili, Togliatti, Nenni e Basso prospettavano una via che era differente rispetto a quella delineata dal Manifesto di Ventotene: e che, di più, in sé racchiudeva tutti gli elementi fondamentali per una critica puntuale di quest’ultimo e di quella sua vocazione cosmopolitica che – è un tema centrale in tutti e tre gli autori testé menzionati – non solo era aliena alle classi lavoratrici, ma che, di più, si poneva come lo strumento ideale per dominarle ancora più intensamente.
Ancora nel 1957, il comunista Gian Carlo Pajetta si opponeva con forza all’idea di denazionalizzazione in vista di quella che oggi non esiteremmo a definire “europeizzazione”. Dal punto di vista delle classi dominate, occorreva – asserì Pajetta –  “comprendere […] quale valore grande, decisivo sia quello dell’indipendenza nazionale” (25 luglio 1957).
In queste proposte interpretative, che qui abbiamo solo richiamato per cenni, è già presente la grande alternativa tra un cosmopolitismo denazionalizzante e desovranizzante (secondo il modello del Manifesto di Ventotene), a cui aderiranno le sinistre market-friendly anti-gramsciane e che è l’humus ideale per il prosperare del rapporto di forza cosmomercatista, da una parte, e un socialismo democratico a base nazionale, sovranista e internazionalista, volto alla tutela delle classi lavoratrici (e, dunque, nemico dell’apertura post-nazionale a beneficio del capitale), dall’altra.
La prima via tende ad annullare l’internazionalismo proletario nel cosmopolitismo favorevole alla classe dominante e fondato sull’abbattimento delle sovranità nazionali: e sfocia, in ultimo, nel liberismo economico della deregolamentazione post-nazionale e nella dottrina universalista e sovranazionalista dei diritti umani da esporto missilistico (id est nel globalismo capitalistico). Sarà su questa duplice base, il cui fondamento essenziale sta nell’abbandono dell’internazionalismo delle nazioni sorelle a vantaggio del mondialismo del mercato unificato, che si consumerà la metamorfosi kafkiana del quadrante sinistro: il quale, nel suo transito dal rosso al fucsia, dalla falce e martello all’arcobaleno, aderirà al dogma liberista (contro ogni possibile seduzione di comunismo, socialismo e keynesisimo) e all’ordine atlantista del one world americano-centrico (con imperialismo dei diritti umani, interventismo etico, bombardamento umanitario ).
La seconda via, per parte sua, muove dal presupposto in accordo con il quale mantenere l’interesse nazionale non contrasta con l’internazionalismo, ma ne è anzi la condizione ineludibile. L’internazionalismo, infatti, non si regge sul superamento delle sovranità nazionali, ma sulla loro relazione solidale o, più precisamente, sul rapporto fraterno tra Stati sovrani democratici e socialisti, distanti tanto dal nazionalismo conquistatore, quanto dal cosmopolitismo mercatistico.
Società | 4 Giugno 2019

mercoledì 5 giugno 2019

Sanità, per salvare il pubblico dal privato bisogna abbattere le liste d’attesa

Fonte: Il Fatto Quotidiano Cronaca | 5 Giugno 2019 

Il nostro sistema sanitario è minato da tempo da corruzione e malaffare. Roberto Formigoni, quando era presidente della Regione Lombardia, diceva che il sistema lombardo era il migliore d’Europa: certo, forse per lui ed i suoi compari che hanno organizzato il sistema privato di accreditamento senza alcun controllo e nel loro interesse. Se a Milano ed in Lombardia i migliori ospedali sono privati, come il San Raffaele, è difficile poter accedere a servizi di livello in quei luoghi “speciali” semplicemente con la mutua. Ma quel che è peggio che i cittadini non capiscono che devono tutti salvaguardare il sistema pubblico perché se esso dovesse scomparire anche quelli che hanno la fortuna di essere coperti avranno premi assicurativi sicuramente più alti. Pensiamo poi ai milioni di italiani che invece una assicurazione non potrebbero permettersela: come già avviene in fasce di persone, rinunceranno a curarsi.
E’ di questi giorni la notizia dell’arresto di diversi medici di Bergamo per aver scelto di effettuare visite private all’interno di strutture pubbliche, riducendo il numero di quelle mutualistiche, e di farne anche in strutture private esterne riducendo così il guadagno di quelle pubbliche per le quali venivano pagati. Una frode ai danni del Sistema Sanitario Nazionale di 950mila euro!
Occorre cambiare questo sistema in cui il privato ormai occupa più del 50% delle esigenze di salute. Occorre un sistema di controlli a campione sui pazienti e non sulle cartelle cliniche o sul cartaceo. Occorre non utilizzare il medico di famiglia come controllore solo perché lo Stato non è in grado di controllare e che i cittadini tutti, a cominciare dai medici, non rispettano le regole, ancor più importanti in un sistema in cui la salute e la malattia sono la base della vita.
Il privato vince soprattutto nella gestione delle liste di attesa per visite, esami e interventi. Occorre proteggere prima il sistema pubblico ed obbligare il privato ad avere, in un sistema concorrenziale equilibrato, gli stessi oneri ed onori. Non serve l’impegno di avere previsto nella prossima finanziaria un nuovo esborso di 350 milioni di euro solo per ridurre le attese. Prendiamo ad esempio la Casa di Cura San Pio X di Milano accreditata con il Sistema Sanitario Nazionale: non ha un pronto soccorso, esiste un programma per sviluppare soprattutto Ginecologia e Ortopedia grazie ai rimborsi regionali alti e perché spesso i medici sono “stimolati” alle visite private con sacrificio di quelle mutualistiche. Non ho nulla contro questa clinica, anzi sono certo che ci lavorano tanti bravi medici, ma non mi pare giusto che la direzione possa decidere chi e quanto curare nel silenzio della Regione.
D’altronde tutti i grossi gruppi sanno che conviene investire in sanità, senza controlli seri. Come De Benedetti con la sua Kos: spiega Investire Oggi, “Anche perché la spesa sanitaria privata è in significativa crescita, laddove ha in parte sostituito la spesa pubblica per alcune prestazioni (prevalentemente ambulatoriali) a seguito dell’incremento del ticket sanitario e dell’allungamento dei tempi di attesa nelle strutture pubbliche”.
Quindi come iniziare a ridurre le liste di attesa senza spendere di più?
– Togliendo il convenzionamento se non si rispettano le regole. Parità di guadagni a parità di prestazioni. Invito la ministra Giulia Grillo a controllare i numeri delle liste di attesa nel privato e inserendo un tetto che non può essere superato se prima non si assicurano le visite della mutua. Controlli quante visite ambulatoriali fanno i vari medici di specialità, ne vedrà delle belle!
– Cancellando i “solventi divisionali”. Spiego meglio. In molte strutture private accreditate si distinguono tre tipi di prenotazioni: lo “sfigato” che attende per una visita con il Ssn anche un anno; il “ricco” che la fa privatamente dopo qualche giorno;  il tipico italiano – il “furbo” o per lo meno si sente tale – a cui viene chiesta una partecipazione diretta simile al ticket, che deve sborsare per una prestazione che il Ssn dovrebbe pagare visto che lui paga le tasse (speriamo!). La Regione resta silenziosa perché non riceve la ricetta del Ssn e quindi non paga nulla riducendo la spesa tenendo i conti in ordine. La struttura ed il medico acconsentono a ricevere una cifra più bassa di una visita privata, ma comunque subito, a differenza di rimborsi regionali inferiori e a mesi di distanza, a scapito di un allungamento delle liste di attesa vere per i cittadini più onesti. Negli ospedali e nelle strutture private accreditate occorre modulare le visite private a seconda delle esigenze di quelle mutualistiche in modo di non far vincere né il ricco né il furbo.
Vogliamo intervenire?
Cronaca | 5 Giugno 2019

lunedì 3 giugno 2019

Ufo, il Pentagono ha diffuso un video ufficiale. In attesa di nuove ‘rivelazioni’

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società | 31 Maggio 2019  

Continua l’eco mediatica suscitata dai vari articoli pubblicati negli Usa, tra cui emergono, per rilevanza, quelli del Washington Post e del New York Times usciti quasi in contemporanea, in uno scenario nostrano caratterizzato da una robusta dose di confusione e fraintendimenti. La confusione è dovuta soprattutto alle nuove sigle adottate. All’acronimo Ufo, sempre più considerato scomodo in quanto dequalificato, si tende infatti a preferire sempre di più i maggiormente presentabili Uap (unidentified aerial/aerospace phenomena) e Uav (unidentified aerial/aerospace vehicle) e un po’ più raramente la coppia Aap (anomalous aerial/aerospace phenomena) e Aav (anomalous aerial/aerospace vehicle).
Intanto in questo polverone di interpretazioni e sigle sfugge, come spesso accade, la cosa più importante: la costituzione negli Stati Uniti di un gruppo di scienziati e ricercatori indipendenti denominato Scu (Scientific coalition for Uap studies), che si definisce “un’organizzazione di ricerca composta principalmente da scienziati, ex ufficiali militari e personale delle forze dell’ordine con esperienza tecnica e background nelle tecniche investigative”.
Tale gruppo ha recentemente tenuto il suo primo congresso pubblico e ha rilasciato una perizia forense di ben 276 pagine (A forensic analysis of navy carrier strike group eleven’s encounter with an anomalous aerial vehicle – 2004 Us nimitz incident report) basata, in particolar modo ma non solo, sulla minuziosa analisi di un filmato acquisito da un sistema Atflir imbarcato su di un caccia F/A-18F della Marina Usa e ufficialmente rilasciato dal Pentagono, quindi dati non contestabili, acquisiti dalle più avanzate strumentazioni di rilevamento oggi disponibili. Le conclusioni di tale minuziosa analisi sono che “le accelerazioni dimostrate da tali Aav vanno al di là delle capacità di qualsiasi aeromobile conosciuto”.
Leggi anche qui : filmato pentagono
Verrebbe quindi da pensare che non sia poi del tutto una coincidenza il fatto che un tale gruppo nasca dopo che la stessa Nasa ha compiuto passi che sarebbero stati considerati alla stregua di fantascienza solo pochissimi anni fa. Prima di tutto vengono sollecitazioni da parte di ricercatori Nasa nei confronti del Seti (Search for extraterrestrial intelligence), come quella dello scienziato Silvano P. Colombano dell’Ames research center, in un documento presentato per la prima volta a marzo 2019 al Decoding alien intelligence workshop, organizzato appunto dal Seti. Nel suo documento, Colombano invita i ricercatori del Seti a una maggiore flessibilità, a mostrare “disponibilità a estendere le possibilità in merito alla natura dello spazio-tempo e dell’energia” e a “considerare il fenomeno Ufo degno di studio“, implicitamente criticando l’atteggiamento del Seti per non avere mai preso in seria considerazione la vastissima casistica Ufo (pardon, Uap), pubblicamente disponibile.
Poi, la stessa Nasa ha recentemente tenuto uno specifico workshop, intitolato Nasa and the search for technosignatures, dove le Technosignatures sono definite come “un qualsiasi segno di tecnologia dal quale è possibile inferire l’esistenza di vita intelligente ovunque nell’universo” e dove si discute senza mezzi termini di argomenti quali la possibile scoperta di artefatti extraterrestri nel sistema solare. Pubblicato su Arxiv.org il 28.12.2018, il report di questo workshop è disponibile online.
Ricordiamo infine con soddisfazione che lo scorso 27 ottobre 2018 si è tenuto il settimo Convegno internazionale “Città di Roma” del Cun, nel quale abbiamo avuto il privilegio, unici al di fuori degli Stati Uniti, di avere come relatore Luis Elizondo, ex direttore del programma Advanced aerospace threat identification program (Aatip). Nel corso del convegno romano, Elizondo fra le altre cose ha di fatto anticipato le dichiarazioni riportate in questi giorni sulla stampa americana, quando ha affermato, riferendosi ai filmati ufficialmente rilasciati dal Pentagono, “se comprendete ciò che vedete in questi video, è evidente che questa non è tecnologia nostra”.
In chiusura, una personale considerazione a tale proposito: se le tecnologie per costruite tali ordigni fossero effettivamente in possesso di una qualche potenza terrestre, non vi è dubbio che sarebbero già stati utilizzati e avrebbero già cambiato, e per sempre, gli scenari geopolitici come li conosciamo oggi. E probabilmente sulla Luna, su Marte e ben oltre ci saremmo già tranquillamente arrivati senza i problemi che le agenzie spaziali devono affrontare oggi. Intanto, in attesa di nuove “rivelazioni”, la ricerca e il cambio di paradigma procedono.
Ps. Curiosità. Il termine Ufo è stato tradotto in Unexplained Flying Object, cioè oggetto volante non spiegato, che curiosamente coincide con il termine Riv (Res Inexplicata Volantis), appunto “cosa volante non spiegata”, coniato in Vaticano per l’aggiornamento dei nuovi vocaboli ancora non esistenti nella lingua latina. Sarà forse il segno del “cambio di paradigma?”
Società | 31 Maggio 2019

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