La categoria di sovranismo viene liberamente impiegata dai pretoriani del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto per dissociare democrazia e sovranità e, insieme, per associare sovranità e dittatura. Eppure la sovranità, nel dopoguerra, era intesa come base del socialismo e della democrazia. In modo opposto, la rimozione della sovranità era assunta come base della perdita della democrazia e come baluardo del cosmopolitismo capitalistico. Palmiro Togliatti, in un intervento alla Camera dei deputati del 2 dicembre del 1948, difese strenuamente, come peraltro sempre avrebbe fatto, la sovranità nazionale, respingendo incondizionatamente il progetto della creazione di una federazione europea che si ponesse al di sopra delle sovranità nazionali: ciò avrebbe significato – sono parole di Togliatti – “non unire, ma scindere l’Europa”.
La forza con cui la guida del partito da lui fondato con Gramsci difendeva la sovranità nazionale contro le ingerenze statunitensi era la stessa con cui la tutelava da una decostruzione mediata dal mito dell’integrazione europea. Togliatti rigettava senza mediazioni la visione cosmopolitica, ravvisandovi la quintessenza dell’ideologia della classe dominante:
Il comunismo non ha nulla di comune col cosmopolitismo.
[…] Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e
l’internazionalismo proletario poiché l’uno e l’altro si fondano sul
rispetto dei diritti, delle libertà, dell’indipendenza dei singoli
popoli. È ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi,
scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il
nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua
funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi
tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il
partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro
nazione se non vogliono troncare la loro radici vitali. Il
cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia.
Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca
internazionale, dei cartelli e dei trust internazionali, dei grandi
speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi.
Sono parole
su cui dovrebbero meditare specialmente quanti, nel quadrante sinistro,
confondono oggi l’internazionalismo proletario con il cosmopolitismo
liberista.Sempre nel 1948, Pietro Nenni, guida del Partito Socialista Italiano (PSI), si oppose fermamente ai progetti di federazione europea e di patto atlantico. Nel secondo caso, si sarebbe avuta una subordinazione dell’Italia alla monarchia del dollaro. Nel primo caso, invece, sarebbe stata “la Germania alla testa dell’Europa”, come Nenni ebbe ad asserire presso la Camera dei deputati il 30 novembre del 1948. Contro questa duplice eventualità, Nenni proponeva di “organizzare il paese in libera democrazia autonoma” e, dunque, sul fondamento della sovranità nazionale, intesa come ineludibile base del progetto democratico.
Tanto a Togliatti, quanto a Nenni e, ancora, a Lelio Basso era immediatamente chiara l’implicazione antidemocratica della sovranazionalizzazione dei processi decisionali, nonché, in modo convergente, la loro reale portata nel quadro del conflitto di classe. Così si pronunziò Basso alla Camera dei deputati, il 13 luglio del 1949:
L’internazionalismo
proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia,
ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere
pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie,
nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei
valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.
Sia
pure da prospettive e da inquadramenti politici reciprocamente
irriducibili, Togliatti, Nenni e Basso prospettavano una via che era
differente rispetto a quella delineata dal Manifesto di Ventotene:
e che, di più, in sé racchiudeva tutti gli elementi fondamentali per
una critica puntuale di quest’ultimo e di quella sua vocazione
cosmopolitica che – è un tema centrale in tutti e tre gli autori testé
menzionati – non solo era aliena alle classi lavoratrici, ma che, di
più, si poneva come lo strumento ideale per dominarle ancora più
intensamente.Ancora nel 1957, il comunista Gian Carlo Pajetta si opponeva con forza all’idea di denazionalizzazione in vista di quella che oggi non esiteremmo a definire “europeizzazione”. Dal punto di vista delle classi dominate, occorreva – asserì Pajetta – “comprendere […] quale valore grande, decisivo sia quello dell’indipendenza nazionale” (25 luglio 1957).
In queste proposte interpretative, che qui abbiamo solo richiamato per cenni, è già presente la grande alternativa tra un cosmopolitismo denazionalizzante e desovranizzante (secondo il modello del Manifesto di Ventotene), a cui aderiranno le sinistre market-friendly anti-gramsciane e che è l’humus ideale per il prosperare del rapporto di forza cosmomercatista, da una parte, e un socialismo democratico a base nazionale, sovranista e internazionalista, volto alla tutela delle classi lavoratrici (e, dunque, nemico dell’apertura post-nazionale a beneficio del capitale), dall’altra.
La prima via tende ad annullare l’internazionalismo proletario nel cosmopolitismo favorevole alla classe dominante e fondato sull’abbattimento delle sovranità nazionali: e sfocia, in ultimo, nel liberismo economico della deregolamentazione post-nazionale e nella dottrina universalista e sovranazionalista dei diritti umani da esporto missilistico (id est nel globalismo capitalistico). Sarà su questa duplice base, il cui fondamento essenziale sta nell’abbandono dell’internazionalismo delle nazioni sorelle a vantaggio del mondialismo del mercato unificato, che si consumerà la metamorfosi kafkiana del quadrante sinistro: il quale, nel suo transito dal rosso al fucsia, dalla falce e martello all’arcobaleno, aderirà al dogma liberista (contro ogni possibile seduzione di comunismo, socialismo e keynesisimo) e all’ordine atlantista del one world americano-centrico (con imperialismo dei diritti umani, interventismo etico, bombardamento umanitario ).
La seconda via, per parte sua, muove dal presupposto in accordo con il quale mantenere l’interesse nazionale non contrasta con l’internazionalismo, ma ne è anzi la condizione ineludibile. L’internazionalismo, infatti, non si regge sul superamento delle sovranità nazionali, ma sulla loro relazione solidale o, più precisamente, sul rapporto fraterno tra Stati sovrani democratici e socialisti, distanti tanto dal nazionalismo conquistatore, quanto dal cosmopolitismo mercatistico.
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