venerdì 29 giugno 2018

“Così Merkel ha distrutto l’Unione Europea”

Fonte: W.S.I. 29 giugno 2018, di Alberto Battaglia

La gestione delle due grandi crisi europee, quella dell’euro e quella dei migranti, hanno visto nella cancelliera tedesca Angela Merkel una grande protagonista; ma le soluzioni che si sono fatte strada hanno acuito le divisioni in seno all’Unione Europea. E’ questa, in sintesi, la tesi di un editoriale della testata americana Politico, nel qual si sostiene che Merkel abbia “spinto più che mai il continente più vicino al limite”. E questo, nonostante il fatto che adesso tutti i commentatori (tedeschi e non) vedano in lei la figura chiave per salvare l’integrità dell’Ue.
“Angela Merkel si è destreggiata in questa situazione”, ha detto Timo Lochocki, del think-tank German Marshall Fund, “le sue azioni nella zona euro e sulle le crisi dei rifugiati hanno irritato molti alleati europei di cui ora ha bisogno. E il conflitto irrisolto sui migranti ha alienato l’ala conservatrice del suo stesso partito, in primis la Csu”.
Sulla questione della crisi dell’euro “l’insistenza di Berlino”, scrive Politico, ha imposto a Grecia e Italia “una dura austerità alle loro popolazioni – quali che siano i meriti a lungo termine di tali politiche – e ha esacerbato il divario economico all’interno dell’Eurozona e aumentato il risentimento della potenza economica tedesca”.
Il fronte migratorio, invece, ha visto uno snodo fondamentale nella politica tedesca delle porte aperte del 2015 la quale avrebbe avuto influenza anche altrove: “Durante la campagna referendaria britannica sull’Ue nel 2016, gli attivisti della Brexit hanno usato immagini di rifugiati in Germania come esempio di tutto ciò che era andato storto in Europa”. Più in generale, nota Politico, “mentre la Germania lottava per far fronte all’afflusso di migranti, Merkel, che ha goduto a lungo di un sostegno universale, è diventata una figura polarizzante nel Paese”. Arrivati a questo punto, il compito di correggere il tiro, con le elezioni europee che incombono il prossimo anno, ha poco tempo a disposizione, mentre cresce in Europa una rinnovata esigenza di primazie nazionali.
 
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giovedì 28 giugno 2018

Il welfare aziendale è una iattura

Fonte: Il Fatto Quotidiano Lavoro & Precari | 28 giugno 2018 

Il titolo di questo post riprende quello, fra il provocatorio e l’ironico, di un librino appunto sul welfare aziendale. Che è l’espressione usata per un coacervo di beni e servizi (buoni pasto, sanità integrativa, trasporti casa-lavoro ecc.) che dovrebbero accrescere il benessere del lavoratore.
A sentire certuni è una meraviglia. Vedi il Rapporto welfare di Repubblica del 18 giugno dove leggiamo che il premio di risultato diventa leva di business e ci guadagnano tutti e in particolare che “la polizza conviene” riguardo alla sanità integrativa cui è stato anche dedicato il Welfare day del 6 giugno 2018, che ha certo aiutato i bilanci dei giornali, vista la massiccia campagna pubblicitaria. In particolare per Metasalute, dei lavoratori metalmeccanici, rimando a un mio articolo sul Il Fatto quotidiano.
In realtà il welfare aziendale è spesso una trappola: viene sbandierato un vantaggio fiscale e contributivo, nascondendo che nel complesso la scelta è economicamente in perdita. L’autore del libretto (61 pagine) è Alberto Perfumo. Responsabile di un’azienda di consulenza proprio sul welfare aziendale, è ragionevole supporre che miri a portare acqua al proprio mulino. Di fatto però riferisce correttamente anche dati e informazioni negativi per il welfare.
Merita concentrarsi sui premi di produttività, di risultato ecc. nel settore privato, anche per le pressioni di molte aziende perché i lavoratori li destinino al welfare, anziché riceverli in busta paga. Con essi la legge appare molto generosa. Fino a 3mila o anche 4mila euro l’anno, chi li incassa direttamente paga 9,19% di contributi previdenziali e solo il 10% d’imposta anziché un’Irpef dal 23% al 43%. Chi li destina al welfare, evita addirittura ogni contributo o imposta. Ecco perché questa seconda opzione pare convenire (e per carità di patria non infieriremo su una terza possibilità, ovvero la destinazione alla sciagurata previdenza integrativa).
In realtà la faccenda è più complessa a causa di una normativa criticabilissima. Col premio di produzione nel welfare, il datore di lavoro non versa più la sua parte di contributi previdenziali. Come scrive Perfumo, mille euro di welfare al lavoratore, costano mille euro all’impresa con un risparmio di circa il 30% in contributi. Quindi i dipendenti risparmiano circa il 19% fra imposte e contributi, ma perdono versamenti previdenziali dell’azienda a loro favore in misura superiore.
Con un orizzonte di lungo termine appare dunque preferibile incassare il premio in busta paga. I contributi previdenziali non sono mica soldi persi. Fanno maturare una pensione più alta. Perfumo cita uno studio secondo cui mille euro l’anno in welfare per 37 anni conducano a una decurtazione della pensione di 873 euro l’anno. Ma anche nella stessa ottica dei “pochi, maledetti e subito”, può convenire il premio in busta paga, perché spesso i soldi nel welfare non si recuperano subito; e può diventare difficile utilizzarli tutti.
Lavoro & Precari | 28 giugno 2018

mercoledì 27 giugno 2018

Savona, altro che Fme: serve un budget Ue

Fonte: W.S.I. 27 giugno 2018, di Alberto Battaglia
Il dibattito franco-tedesco sulle riforme dell’Eurozona, un insieme di nuove regole che dovrebbero garantire un bilanciamento fra più solidarietà fra Paesi del Nord e Sud Europa e maggiori elementi di controllo sulle politiche economiche degli stati, lascia un’incognita: qual è la posizione italiana in questa battaglia?
Il nuovo governo giallo-verde, allontanandosi dai trascorsi euroscettici di M5s e Lega, sembra aver ammorbidito di molto le sue posizioni: sin dai primi interventi del premier Conte, veniva infatti ribadita l’adesione italiana al progetto europeo. La strategia italiana nell’ambito di questo negoziato di portata fondamentale per i futuri equilibri economici dell’Eurozona è stata chiarita in modo più approfondito in una lettera a Confindustria firmata da Paolo Savona, ministro agli Affari europei e ormai noto a tutti per le sue posizioni senza sconti sulle gravi lacune dell’impalcatura dell’euro.
“Nonostante tutti concordino, soprattutto all’estero, sull’incompletezza dell’architettura dell’Unione, tutti però si fermano sulla soglia della risposta da dare nel caso in cui le soluzioni si dimostrassero non praticabili. Trovo questa esitazione di una drammaticità preoccupante”, scrive Savona, prima di articolare le sue proposte.
“La mia tesi è che lo Statuto della Bce debba essere adeguato negli obiettivi e negli strumenti assegnati a quelli di cui dispongono le principali banche centrali. Draghi ha fatto un ottimo lavoro nei limiti del mandato assegnato alla Bce, ma i poteri di cui avrebbe dovuto disporre richiedono d’essere rafforzati”.
E ancora: “La politica dell’offerta (le riforme) che viene costantemente invocata è l’essenza della politica europea corrente e non può produrre gli effetti sperati senza una politica della domanda centrata su investimenti atti a colmare i divari di crescita reale interni e verso l’esterno”.
Per attuare una politica a sostegno della domanda non serve “la nomina di un Ministro europeo della finanza, che sia guardiano della politica dell’offerta (…) né un’unione bancaria europea che si fondi sull’abbassamento del rischio bancario valutato meccanicamente su cinque parametri, né l’offerta di creare una Fondo Monetario Europeo che intervenga imponendo condizionalità per garantire le riforme”. Niente di tutto ciò potrebbe “ovviare all’assenza di una politica della domanda”.
Il nodo cruciale è, non a caso, quello più inviso ai Paesi del Nord: la costituzione di un budget che doti l’Ue di mezzi propri per “imprimere spinte esogene alla crescita macroeconomica. L’impostazione di Emmanuel Macron, va detto, aveva spinto proprio in questa direzione.
Sull’importanza dello snodo, tutt’altro che puramente formale, di una revisione istituzionale dell’Ue, Savona dedica la sua conclusione: “Esiste una stretta relazione tra architettura istituzionale dell’Ue e la sua politica. Agire solo sulla seconda è un compito defatigante e per molti versi inutile, se non proprio pericoloso per la coesione europea e il futuro dell’Italia”.

martedì 26 giugno 2018

Il tribalismo di Stato sta tornando. E bisogna fare attenzione

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia Occulta | 24 giugno 2018 

In 1984, il capolavoro distopico di George Orwell, il sistema si impadronisce del linguaggio e spoglia la lingua delle espressioni più poetiche trasformandola in un codice sempre più povero di vocaboli, una sequenza di slogan. Prima vittima di questo processo è la memoria storica, che viene costantemente riscritta. Con questo strumento il “regime” descrive guerre immaginarie contro nemici altrettanto fittizi e vittorie spettacolari, tutte mai avvenute. Lo status di guerra permanente è il collante che tiene in piedi una società profondamente debole, priva di consenso. Il nemico è dovunque e chiunque.
In politica il linguaggio è fondamentale, è il ponte attraverso il quale fluisce la volontà popolare. Almeno questo è ciò che succede in democrazia. Nei “regimi” succede il contrario, il linguaggio scorre al contrario, è il sistema che decide cosa dire e come dirlo e il popolo assorbe, come una spugna, tutte le fandonie che gli vengono servite. Chi esporta troppo acciaio negli Stati Uniti mette a repentaglio la sicurezza nazionale; i migranti succhiano risorse che altrimenti verrebbero spese per gli italiani; il governo ungherese temendo un’epidemia di omosessualità proibisce la rappresentazione di Billy Elliot.
L’avanzata della destra mondiale sulle due sponde dell’Atlantico sta facendo man bassa del linguaggio democratico sostituendolo con slogan de facto razzisti e anacronistici. In Economia Canaglia ho descritto questo fenomeno in relazione alla fascistizzazione della società. “La fascistizzazione della società andava di pari passo con lo spoglio dell’essenza della nazione; entrambi questi obiettivi sono stati raggiunti attraverso una conversione forzata di massa. La fascistizzazione della società era messianica e celebrativa. Il tribalismo di Stato fu costruito sulla rinascita dell’Italia come potenza imperiale; i suoi geni erano romani, la sua anima fascista. Quindi l’illusorio obiettivo finale proiettato dall’economia fascista era di far risorgere la grandezza degli italiani, di rivitalizzare l’italianità”.
I paralleli con nazioni come l’Ungheria, la Polonia, l’Austria, l’America di Trump e, ahimè, anche l’Italia sono lampanti. Naturalmente la grandezza degli italiani e dell’italianità descritta dal fascismo negli anni Venti non esisteva, come non esiste il primato degli ungheresi, dei polacchi, degli italiani e persino degli Stati Uniti nel villaggio globale.
“Era un miraggio magistralmente commercializzato perché l’Italia non aveva capacità né forza per riconquistare la sua grandezza. La sua economia era una forma di ‘capitalismo senza capitale‘ dove, grazie a una relazione particolarmente incestuosa, le banche e le industrie condividevano lo stesso capitale scarso. Conosciuto come banca mista, questo sistema consentiva alle banche di partecipare alla gestione delle aziende mentre le aziende, controllando ampie quote di banche, utilizzavano i risparmi delle banche per finanziarsi”.
Oggi assistiamo a tentativi di riforme economiche incestuose analoghe, la flat tax e il reddito di cittadinanza, proposte che possono essere messe in atto soltanto aumentando il debito pubblico, cioè emettendo titoli di stato. In altre parole prendendo in prestito dai cittadini i soldi che il governo promette di distribuir loro. Certo sulla carta questo debito dovrebbe generare sufficiente ricchezza per poter essere ripagato, ma l’Italia ha già un debito ben maggiore del Pil annuale che da trent’anni non riesce a ridurre perché non ce la fa neppure a pagare gli interessi senza indebitarsi ulteriormente.
Negli anni Trenta il modello economico fascista venne esportato nel mondo quale strumento principe per combattere la grande depressione. “Il tribalismo di Stato sostituì il liberalismo economico in modo che lo stato potesse avere mano libera nell’economia. Dal Giappone all’Ungheria, dall’Argentina alla Spagna, dalla Germania al Brasile, i dittatori fascisti salirono al potere sotto la bandiera del tribalismo di Stato. Nessuno è sfuggito alla sua degenerazione politica. Abbandonati i valori della globalizzazione della seconda metà del XIX secolo, i governi autoritari attribuirono ai valori democratici la causa della crisi economica facendoli a pezzi uno per uno”. Al G7 Trump ridicolizza i trattati commerciali interazionali; Salvini chiude i porti alle navi delle Ong straniere e vuole fare un censimento dei Rom.
A livello internazionale il cavallo di battaglia della nuova destra fu il protezionismo, strumento che solo lo stato poteva gestire. “L’intervento statale, dunque, era essenziale per aiutare le economie a risorgere dalle profondità della depressione”. Uno Stato forte, un “regime” che era saldamente al timone dell’economia e che insegnava al popolo cosa pensare, cosa dire e cosa fare. Make America Great Again!
“Fu la polverizzazione dell’individuo, il suo scioglimento nella burocrazia di stati corrotti e parziali, che aprì la strada alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. La natura canaglia del tribalismo economico del XX secolo, quindi, fu il risultato della manipolazione politica delle élite fasciste e dei loro dittatori. Costoro crearono una rete di illusioni che hanno intrappolato la gente in una realtà surreale”. La storia si ripete ma per fortuna non siamo ancora arrivati al riciclaggio della memoria.
Economia Occulta | 24 giugno 2018

lunedì 25 giugno 2018

Deutsche Bank rappresenta minaccia per Eurozona

Fonte: W.S.I. 20 giugno 2018, di Alberto Battaglia

Il Fmi lo aveva già segnalato nel 2016: Deutsche Bank è uno dei maggiori elementi di rischio per la stabilità finanziaria, per via dell’elevata esposizione dell’istituto tedesco ai derivati. Ora, l’economista , sul sito del Mises Institute ribadisce il concetto fornendo una sintesi piuttosto eloquente dei dati di bilancio relativi a Deutsche Bank, sostenendo come l’istituto sia decisamente troppo grande per fallire.  La prima considerazione esamina il percorso dei titoli azionari bancari nell’Eurozona, assai più malconci degli omologhi statunitensi (figure in basso a sinistra):
“L’andamento delle quotazioni azionarie suggerisce che gli investitori hanno perso un po’ di fiducia nella redditività delle imprese delle banche europee: mentre le azioni delle banche statunitensi sono aumentate del 24% dall’inizio del 2006, l’indice delle azioni delle banche dell’area dell’euro è ancora in calo di circa 70%. In particolare, le due maggiori banche tedesche, Deutsche Bank e Commerzbank, hanno perso rispettivamente l’85 e il 94% della loro capitalizzazione di mercato” (figura in basso a destra).
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La seconda osservazione è sulla enorme dimensione del bilancio di Deutsche Bank:
“Con un bilancio di quasi 1.500 miliardi di euro nel marzo 2018, la Deutsche Bank rappresentava circa il 45% del Pil tedesco. Nel confronto internazionale, questa è una dimensione enorme, decisamente terrificante. È soprattutto il risultato dell’impronta estesa (anche se non redditizia) che la banca ha nel settore dell’investment banking internazionale. La banca ha già iniziato a ridurre il suo bilancio, però”.
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“Se un apparato bancario sovradimensionato inizia a contrarsi, lo stock in sospeso di credito e moneta diminuirà, E quando la quantità di moneta diminuisce [la moneta bancaria, emessa tramite attività di credito privato, è la componente principale dell’offerta di moneta Ndr.], i prezzi su tutta la linea tendono verso il basso causando deflazione. Inutile dire che la deflazione è un incubo per le economie fortemente indebitate: i prezzi in calo aumentano l’onere del debito reale, facendo precipitare il sistema finanziario ed economico in una cataclismica spirale al ribasso”, conclude Polleit.

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