mercoledì 26 giugno 2019

Quel dato che accomuna le economie di Italia e Germania

Fonte: W.S.I. 26 Giugno 2019, di Alberto Battaglia

Insieme alla Germania, l’Italia è il Paese che nel 2019 avrà l’output gap più negativo nell’Eurozona, con la sola esclusione della Grecia. Questo indicatore è strettamente legato alla nozione del Pil potenziale: se l’output gap è negativo, significa che l’economia sta marciando più lentamente rispetto al suo passo ideale – una crescita che non inneschi un’inflazione eccessiva. A scattare questa fotografia è stato lo European Fiscal Board, un comitato consultivo indipendente formato da tecnici che assiste la Commissione europea. Nell’ultimo report dedicato alle “politiche fiscali appropriate” per l’Area euro, viene segnalato ancora una volta che i Paesi ad elevato rischio per il proprio debito pubblico dovrebbero ampliare il proprio avanzo primario, creando un cuscinetto d’emergenza in caso di rallentamenti dell’economia. Allo stesso tempo i Paesi che si trovano in una posizione più solida, come la Germania, “dovrebbero utilizzare parte del loro spazio fiscale disponibile per investire di più e sostenere la crescita economica”. Nel complesso, viene consigliata una politica fiscale complessivamente neutrale per il 2020: né espansiva né restrittiva.
Un aspetto interessante del rapporto però, è visibile in due grafici (in basso) che mostrano una valutazione di sintesi sulle politiche di bilancio dei vari Paesi dell’Eurozona nel 2019 (a sinistra) e nel 2020 (a destra). In breve, ogni sezione del quadrante esprime un diverso atteggiamento nella spesa pubblica. In alto a destra abbiamo una contrazione fiscale (austerità) anticiclica: questo comportamento viene adottato dai Paesi che, in periodi di crescita economica decidono di spendere meno e allargare il proprio “spazio fiscale”. In alto a sinistra, invece, v’è l’area occupata dai Paesi che stanno adottando contrazione fiscale pro-ciclica. A livello di eurozona, quest’ultima zona è stata occupata negli anni della crisi dell’euro, fino al 2014: ora, al contrario, nessun Paese dell’Eurozona sta riducendo la propria spesa in un momento di crisi economica.
Vediamo ora le due sezioni basse del piano cartesiano. In basso a destra è la sezione della espansione fiscale (più spesa, investimenti, meno tasse, ecc.) prociclica, ovvero quella che si fa strada in fasi economiche positive. E, infine, in basso a sinistra, lo spazio occupato dai Paesi che stanno operando le famose politiche espansive anticicliche che, spesso evocate come antidoto contro le recessioni. Sia nel 2019 sia nel 2020, quest’ultimo spazio sarà occupato solo da Italia (IT) e Germania (DE), accomunate dal fatto di esprimere una crescita economica al di sotto del loro potenziale (ribadiamo, escludendo la Grecia).

Uno degli aspetti importanti dello schema è l’altezza nel collocamento di ciascun cerchio perché esprime l’andamento del saldo fra spese ed entrate fiscali al netto del pagamento degli interessi sul debito. L’Italia, trovandosi nella parte bassa del quadrante, svela il fatto che nel 2019 vedrà ridursi questo avanzo, sostenendo maggiormente la sua economia tramite l’intervento pubblico. Nel 2020, si prevede un fortissimo spostamento in basso che sta preoccupando la Commissione europea: infatti l’Italia diverrebbe il Paese dell’Eurozona la cui politica assumerà i caratteri più espansivi rispetto all’anno precedente.
Germania e Italia, dunque, sono entrambe nella posizione in cui dovrebbero assottigliare l’output gap e avvicinarsi alla propria crescita potenziale. La differenza, però, consiste nel fatto che adottare politiche anticicliche avrebbe costi diversi per i due Paesi, dato il costo del debito più elevato in Italia e il maggiore debito pregresso in rapporto al Pil.
Parlando di esempi poco virtuosi, tuttavia, è facile notare come altri Paesi europei adottino politiche fiscali di analogo impatto espansivo rispetto all’Italia, pur non avendo un output gap altrettanto problematico. Qualche esempio: la Spagna (ES) e il Portogallo (PT) nel 2019 e 2020 resteranno in territorio espansivo (parte bassa del quadrante) pur essendo in una fase di crescita (intervento pro-ciclico, parte destra del grafico). Cipro (CY), ad esempio, risulterebbe l’esempio meno virtuoso: avendo elevato debito sul Pil, avanzo primario decrescente e un ciclo economico favorevole.
Il Comitato, in merito alle condotte di alcuni Paesi “osservati speciali” si è espresso in questi termini:
“Basandosi sulle misure attualmente adottate, che non includono ancora le leggi di bilancio 2020, la stragrande maggioranza dei paesi che devono consolidarsi [cioè aumentare il saldo fra spese e entrate a favore di queste ultime] non lo faranno adeguatamente. Alcuni di essi andranno nella direzione opposta (Belgio, Spagna, Italia, Portogallo e Slovacchia). Questo richiede una correzione. Per quanto riguarda gli overachievers [i Paesi che, al contrario dovrebbero sostenere la crescita con maggior spesa], si prevede che i Paesi Bassi faranno uso significativo del suo spazio fiscale disponibile nel 2020. In Germania, si prevede un uso più limitato dello spazio fiscale più limitato rispetto ai Paesi Bassi e anche più limitato rispetto al 2019”.
Il caso italiano, insomma, risulta particolarmente spinoso perché da un lato si vorrebbe avvicinare il Paese al suo potenziale di crescita, anche se per farlo non è consigliabile adottare un minor avanzo primario. Il governo gialloverde, come evidenzia il grafico relativo al 2020, intende provarci comunque.

martedì 25 giugno 2019

I ghiacci in Groenlandia si sciolgono. Aspettiamo uno tsunami per preoccuparci?

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni | 24 Giugno 2019 

Ha fatto il giro del mondo la foto della slitta tirata da cani che viaggia in mezzo all’acqua in Groenlandia, dove prima c’era uno strato di ghiaccio. Contemporaneamente, il National Snow and Ice Data Center ha diffuso i dati di un improvviso aumento della velocità di fusione del ghiaccio in Groenlandia. Cosa sta succedendo? Ci dobbiamo preoccupare?
La risposta è che sì, ci dobbiamo preoccupare, anche se non per questo evento in particolare. La perdita di ghiaccio in Groenlandia del 17 giugno è stata di circa 4 Gt (gigatonnellate, ovvero miliardi di tonnellate). E’ stato un fenomeno anomalo, certamente, ma simili perdite si erano già viste nel 2012, anche se non così presto nella stagione estiva. Possiamo comparare questo dato con la massa totale della calotta di ghiaccio della Groenlandia che si stima come 2,5 milioni di Gt. Ovvero, la perdita di un giorno è stata circa un milionesimo del totale. Sappiamo che ci vuole la fusione di circa 400 Gt di ghiaccio per alzare il livello del mare di un millimetro e, secondo un articolo recente, la perdita totale di ghiaccio dalla Groenlandia dal 1972 a oggi ha contribuito per circa 14 millimetri. E’ chiaro che a questi ritmi non rischiamo di vederci arrivare addosso uno tsunami a breve scadenza.
Ma, come dicevo, c’è comunque da preoccuparsi. Sapete la storia di quello che era caduto dal 20esimo piano di un palazzo? Pare che le sue ultime parole prima di schiantarsi sul marciapiede siano state “fin qui, tutto bene”. Con il cambiamento climatico è un po’ la stessa cosa. Fin qui, tutto bene: per ora non sta succedendo niente di spaventoso in Groenlandia o altrove. Il problema è se prima o poi andremo a schiantarci contro l’equivalente climatico di un marciapiede.
E’ certo che la calotta di ghiaccio della Groenlandia si sta fondendo per effetto del riscaldamento globale e non solo, e si sta fondendo a ritmi sempre più rapidi. Se la calotta sparisse completamente causerebbe un aumento medio del livello dei mari di almeno 6 metri. Questo per non parlare della possibilità della fusione dei ghiacci antartici: in quel caso si parla di qualcosa come 60 metri di aumento del livello del mare.
Qualcosa del genere potrebbe davvero succedere? Non è impossibile: la Terra è stata priva di calotte glaciali per lunghi periodi nella sua storia passata, quelle attuali hanno cominciato a formarsi qualche decina di milioni di anni fa. Non che oggi ci aspettiamo di vedere sparire di nuovo le calotte glaciali a breve scadenza, ma sappiamo che la liquefazione del ghiaccio alla base della calotta ha un effetto lubrificante che fa fluire il ghiaccio più velocemente, generando perdite ben più importanti di quelle che derivano dalla fusione superficiale. Se le calotte dovessero subire una perdita considerevole del loro volume nei prossimi decenni, le conseguenze sarebbero spaventose: perdita di suolo fertile, migrazioni di massa, abbandono dei porti e delle città costiere e altri effetti, tutti spiacevoli.
Nessuno può dire quando la fusione dei ghiacci continentali potrebbe cominciare a farci gravi danni, anche se possiamo ragionevolmente sperare che non succeda niente in tempi brevi. Ma l’accelerazione del cambiamento climatico la vediamo non solo con i ghiacci continentali ma in tutti i campi, in particolare con le temperature medie terrestri. L’ondata di calore che ci sta arrivando addosso in questi giorni è solo un altro episodio di un processo in continuo movimento.
Con il riscaldamento globale, abbiamo messo in moto forze gigantesche che si stanno cominciando a manifestare e che si manifesteranno sempre di più nel futuro. Ma, per il momento, continuiamo a pensare che i nostri piccoli litigi quotidiani siano più importanti. L’episodio di fusione dei ghiacci di giugno è apparso brevemente sui media ma è stato subito dimenticato. Dovremo aspettare che ci arrivi veramente addosso uno tsunami prima di renderci conto dei danni che stiamo facendo?
Ambiente & Veleni | 24 Giugno 2019

lunedì 24 giugno 2019

Brexit, Boris Johnson sta per finire in una trappola. Come ne uscirà?

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 23 Giugno 2019 

Sembra ormai inevitabile che alla fine di luglio Boris Johnson verrà eletto primo ministro dai membri del partito conservatore. Boris vincerà perché il partito conservatore è per il 90 per cento sicuro che il Regno Unito debba guardare a ovest, verso l’Atlantico, e mettersi dietro le spalle la pessima esperienza con il Vecchio Continente, tutto ciò nonostante soltanto il 48 per cento dell’elettorato del Regno Unito molto probabilmente è a favore dell’uscita dall’Europa mentre il 52 per cento è contro. La scollatura tra politica istituzionale e politica vera è evidente.
La vittoria di Boris, comunque, non sarà un grosso problema dal momento che non cambierà proprio nulla né per la Brexit, né per la politica del Regno Unito. Lo stallo continuerà come pure l’erosione dei partiti tradizionali, quello conservatore e quello laburista. In primis è estremamente improbabile che il nuovo primo ministro riuscirà ad assicurarsi una maggioranza parlamentare sufficientemente solida da far passare ciò che vuole riguardo alla Brexit (ancora nessuno ha capito bene di cosa si tratti). Ma anche tra i parlamentari conservatori a favore della Brexit sarà difficile trovare consensi, ce ne sono molti che lo detestano e che saranno ben felici di vederlo fallire. Non dimentichiamo che regnare sulla nazione di Shakespeare significa guardarsi le spalle ogni istante dai coltelli pronti per essere conficcati nella schiena dei primi ministri, che spesso periscono per mano dei propri amici o colleghi. Michael Gove, ad esempio, è un ex grande amico e collega di Boris, ha già fatto capire a tutti che se quest’ultimo verrà eletto primo ministro sarà suo compito perseguitarlo.
Altro motivo per il quale il regno di Boris Johnson non cambierà proprio nulla è l’atteggiamento ostile di Bruxelles. Il centro del potere dell’Unione Europea non lascerà che l’uomo che ha appoggiato apertamente il movimento Brexit durante il referendum abbia alcuno spazio per rinegoziare gli accordi sottoscritti da Theresa May. Anche a Bruxelles l’ex sindaco di Londra ha molti, forse anche troppi nemici, quindi non ci sarà alcuna rinegoziazione. Non si prenderanno in considerazione i nuovi piani da lui suggeriti per il confine irlandese né i commenti sul libero scambio entrambi eccessivamente vaghi e poco chiari, si pensi solo al prolungamento del processo della Brexit fino alla fine del 2021.
In conclusione Boris sta per finire in una bella trappola politica. E come ne uscirà? Certo non può suggerire un nuovo referendum, se lo facesse la sua testa rotolerebbe lungo i corridoi del parlamento ed a tagliarla sarebbero proprio i membri del suo partito. Probabilmente finirà per fare quello che ha fatto Theresa May, indirà nuove elezioni politiche. Secondo lui, naturalmente, si tratterebbe di un plebiscito popolare a suo favore, plebiscito che dovrebbe confermare la decisione del partito conservatore a nominarlo primo ministro. Ma affinché ciò avvenga, il partito conservatore dovrebbe essere l’indiscusso vincitore delle elezioni. Peccato che questo sia un sogno difficilmente realizzabile. Le elezioni, come quelle europee, non avranno nulla a che fare con la politica o le scelte del partito conservatore o degli altri partiti, ma saranno sulla Brexit, un nuovo referendum mascherato, dunque. A quel punto Boris, se sopravvive alle perdite di consensi, dovrà fare i conti con Nigel Farage e i
Liberal Democrats, e, chissà, forse anche con i verdi.
Morale: la Brexit rimarrà disordinata, confusa e destabilizzante con Boris Johnson come lo fu con Theresa May perché il Paese è spaccato in due e i partiti sono di parte, non esiste un vero consenso di maggioranza. Tuttavia, a lungo termine la Brexit è solo un altro ostacolo, non una catastrofe. Certo, il Regno Unito ci inciamperà di nuovo sopra e farà altri bei capitomboli ma si riprenderà, e reinventandosi forse riuscirà ad inserirsi meglio nella nuova economia globale. Naturalmente con un primo ministro diverso da Johnson e un partito nuovo, né conservatore né laburista.
Zonaeuro | 23 Giugno 2019

domenica 23 giugno 2019

Fondi per il Sud, chi li spende davvero?

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 23 Giugno 2019 
A proposito di un emendamento che prevedeva di usare i fondi per il Sud nelle Regioni, il Ministro Barbara Lezzi ha dichiarato: “Questo emendamento, che aveva anche il parere contrario della Ragioneria dello Stato e che non verrà mai votato dai parlamentari del Sud del M5s – ha aggiunto – ha rappresentato un atto di totale scorrettezza. Chiunque lo abbia presentato, Lega o non Lega, dovrà chiedere scusa e dare delle spiegazioni”.
Dal punto di vista dei cittadini, l’idea di spostare sulle Regioni i fondi per il Sud può non essere malvagia, purché queste siano in grado di spenderli, i fondi. E purché siano Regioni del Sud, (come pare fosse scritto nell’emendamento, leggendo il pezzo sul Sole24Ore) visto che di fondi per il Sud si tratta. Invero, disponendo di un ministero per il Sud, ci si aspetta una visione dell’intervento che trascenda le prospettive limitate degli enti locali, in previsione di una visione di sistema e non localistica. Quindi, il processo innescato dall’emendamento, pare quantomeno contraddittorio.

E qui, va detto, i tanti eventi precedenti fanno sorgere qualche perplessità, visto che è una vecchia abitudine quella di parlare male, a bocca piena, del Sud spendaccione, usando con una mano i suoi soldi. Ripercorriamo allora, a grandi passi, le consuetudini invalse negli ultimi trent’anni di storia di patria e di spesa di fondi per il Sud. Ricordiamo che i fondi di Sviluppo e Coesione costituiscono uno strumento finanziario con cui si attuano le politiche per la rimozione degli squilibri economici e sociali nel paese, in attuazione dell’art. 119 della nostra Costituzione. Ricordiamo che la Legge di Stabilità per il 2014 (Letta Premier) aveva introdotto il principio di territorialità per i Piani di Sviluppo e Coesione, stabilendo che l’80% della spesa dovesse riguardare le regioni meridionali, proprio per attenuare i divari e realizzare le infrastrutture mancanti. Se quella percentuale è stata fissata, ci sarà una ragione, no? Una ripassata può far bene (qui prendo dati da La questione italiana di Francesco Barbagallo e da La questione meridionale in breve, di Guido Pescosolido). Quando nel 1994-95 Berlusconi e Dini definirono le “aree depresse del territorio nazionale”, beneficiarie dei finanziamenti europei, la Lega (all’epoca Lega Nord), già al Governo del Paese, vi incluse, tramite il proprio ministro, alcune delle aree più ricche e industrializzate d’Europa, in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. E qui la Cassa per il Mezzogiorno era già defunta, si badi bene. Questi interventi, poi, furono anche defiscalizzati. Dei trenta milioni di italiani che dovevano risultare beneficiari dei fondi europei in aree depresse, ben 11,5 erano settentrionali di “ricche aree depresse”.
Nel 2002, ancora, il governo Berlusconi istituì il Fondo per le Aree Sottoutilizzate (Fas), orientato all’unificazione delle risorse aggiuntive nazionali da destinare alle aree depresse. Il Cnel, però, ha valutato in 26 miliardi le risorse Fas dirottate verso impieghi diversi dalle originarie finalità del Fondo, contribuendo a sminuire, nel corso di un decennio, l’efficacia anche di questa misura, inizialmente pensata per le politiche di coesione. Come scrive Guido Pescosolido, la gestione dei fondi strutturali europei nei primi anni Duemila, affidata alle regioni, riuscì “a scrivere una storia di fallimenti a fronte della quale l’efficienza della Cassa (per il Mezzogiorno) rifulge di luce purissima”.
Proprio in quegli anni, la spesa pubblica per il Sud, in conto capitale, scendeva dal 41% al 32%. Scrive Francesco Barbagallo, “Tra il 2008 e il 2010 le risorse del Fas saranno destinate verso aree non comprese nelle politiche di coesione dirottate verso le tante emergenze prodotte dalla crisi”. Intanto, gli effetti si cumulano e il federalismo fiscale fa sentire il suo peso: già nel 2011 Svimez osservava che, in rapporto al Pil di area, i cittadini meridionali pagano più imposte degli abitanti del Centro-Nord. Le imposte comunali sono aumentate del 151% al Sud, nel resto del Paese dell’82%.
Come faceva osservare Adriano Giannola, tutto ciò comportava aumento della pressione fiscale e una contestuale fornitura di servizi insufficienti. Veniamo, infine, alla Legge di Stabilità 2015: come spiega bene Andrea Del Monaco nel saggio Sud Colonia tedesca – La questione meridionale oggi, Renzi decise di violare tale principio di territorialità, pagando gli sgravi contributivi del Jobs Act su tutto il territorio nazionale, prelevando ben 3,5 miliardi di euro. C’è da restar “depressi”, in effetti.
Economia & Lobby | 23 Giugno 2019

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