giovedì 7 settembre 2017

Referendum Catalogna, la reazione di Madrid: denunce e perquisizioni per trovare le schede

di | 7 settembre 2017 Il Fatto Quotidiano

Il giorno dopo l’approvazione della legge per il referendum le autorità della Catalogna sono finite nel mirino di Madrid. La Guardia Civil spagnola ha avviato la notte scorsa una serie di perquisizioni nel sud della regione a caccia di schede e materiale elettorale per il referendum di indipendenza del primo ottobre dichiarato “illegale” dal governo centrale. Gli agenti della polizia spagnola sorvegliano una tipografia di Costanti, vicino a Tarragona, dove sospetta possa essere stampato il materiale per il voto secessionista. Un’azione ridicolizzata Nella dal ministro degli interni catalano l’indipendentista Joaquim Forn: “È molto divertente”. Il procuratore capo di Madrid José Manuel Maza infatti ha annunciato denunce penali contro il presidente Carles Puigdemont. La procura denuncerà anche i membri della presidenza del Parlament che hanno messo ai voti la legge sul referendum. Ordine è stato dato inoltre alla polizia di indagare su ogni azione “volta alla tenuta del referendum illegale”. Puigdemont ha chiesto ufficialmente  ai sindaci di tutti i comuni catalani di confermare la disponibilità dei seggi usati abitualmente per le elezioni, i primi cittadini hanno 48 ore di tempo.
Intanto il Consiglio di stato spagnolo ha approvato il ricorso che il governo di Madrid presenterà già oggi alla Corte Costituzionale. Il premier Mariano Rajoy ha convocato una riunione straordinaria del consiglio dei ministri per approvare il ricorso. Rajoy e il leader dell’opposizione il socialista Pedro Sanchez hanno confermato la loro unità di azione contro la sfida indipendentista del presidente catalano Carles Puigdemont. Il premier vedrà anche Albert Rivera, presidente di Ciudadanos, il terzo grande partito unionista spagnolo ostile al referendum  definito “illegale” da Madrid. Podemos è invece favorevole al ‘diritto di decidere’ dei catalani. Il referendum “non ci sarà. Questo voto – dice Rajoy –  non si celebrerà in alcun caso, è un un chiaro e intollerabile atto di disobbedienza alle nostre istituzioni democratiche”
A Barcellona i partiti indipendentisti, che hanno la maggioranza assoluta nel ‘Parlament’ catalano, hanno presentato formalmente con procedura urgente e richiesta di modifica dell’ordine del giorno la legge di “rottura” dalla Spagna alla plenaria dell’assemblea di Barcellona, chiedendo che venga esaminata e approvata oggi. Davanti alle contestazioni dell’opposizione unionista la presidente Carmen Forcadell ha sospeso la seduta e convocato l’ufficio di presidenza.
di | 7 settembre 2017

mercoledì 6 settembre 2017

Il Quantitative easing sta per finire. E’ servito a tanto, a poco o a nulla?


di Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia Alla fine del 2017 si prevede inizierà la riduzione del processo di Quantitative easing (Qe). I suoi risultati sono stati in parte coerenti con le aspettative e in parte deludenti. Vediamo in cosa è consistito il Qe e gli effetti prodotti.

Innanzitutto, l’operazione consiste nell’acquisto da parte della Banca centrale europea di 60 miliardi al mese di Titoli di Stato (poi esteso a altre categorie) con classi e importi prestabiliti. Il Qe è in sostanza uno strumento di politica monetaria espansiva, messo in atto per stimolare la crescita economica, quella della produzione, dell’occupazione e dell’inflazione. E come supporto agli Stati che hanno difficoltà a sostenere e a rinnovare il proprio debito pubblico. E’ considerato uno strumento non convenzionale di politica monetaria.
Quanto ai dettagli tecnici del piano, la Bce non ha potuto comperare più del 25% di ogni singola emissione e non più del 33% del debito di un singolo Paese. L’effettivo ammontare è stato fissato sulla base delle quote che ogni banca centrale detiene nel capitale della Bce. Vale a dire che il 17,9% saranno Bund tedeschi, il 14,1% Oat francesi, il 12,3% Btp italiani, l’8,8% Bonos spagnoli e così via. Ad acquistarli, in concreto, sono state le banche centrali nazionali, mentre la Bce ha coordinato gli acquisti “per salvaguardare l’unicità della politica economica e monetaria”. Titoli con durata residua variabile da 2 a 30 anni, prima delle modifiche che hanno ridotto a un anno la durata residua accettata.
Le conseguenze operative di tale operazione sono sostanzialmente quattro:
1. La Bce è andata sul mercato comprando titoli di cui erano pieni i bilanci delle banche commerciali pagandoli tramite creazione di moneta che ha immesso nel sistema. La prima conseguenza è stata che il prezzo dei titoli è salito (perché c’è stata più domanda) e il loro rendimento, cioè il tasso di interesse che ogni Stato paga per finanziare il proprio debito, è sceso. Non sono da dimenticare le ultime emissioni di Titoli di Stato in Europa a rendimento addirittura negativo, con buona pace dei governi.
2. A seguito di quanto sopra, i bassi tassi sui titoli pubblici hanno fatto calare anche il rendimento delle altre obbligazioni (quelle di banche e aziende). Alla fine, quel che è accaduto, è che sono scesi tutti tassi, compresi quelli a cui sono indicizzati i mutui. All’acquisto di titoli, la Bce ha aggiunto altre attività, tra le quali una politica di tassi di interesse negativi (Negative interest rate policy o Nirp), finalizzata essenzialmente a stimolare le banche a una maggiore concessione di credito. Non potendo guadagnare tramite il deposito delle somme presso la Banca centrale, esse avrebbero dovuto aumentare i fidi, così favorendo anche la ripresa dell’inflazione. Effetti verificatisi in maniera inferiore alle attese.
3. Il terzo canale di efficacia del Qe è quello che passa attraverso la valuta. Che si deprezza, perché a seguito degli acquisti della Bce, ce n’è molta di più in circolazione. L’euro sta dunque perdendo terreno rispetto al dollaro, anche a seguito dell’interruzione della stessa operazione di Qe da tempo posta in essere dalla Fed, favorendo le esportazioni. Al tempo stesso, l’aumento dell’offerta di moneta crea inflazione. Questo è uno degli obiettivi fondamentali di Draghi, visto che la Bce ha come “target” un’inflazione vicina al 2%. Dobbiamo ammettere che questo effetto non si è dispiegato ancora pienamente a seguito anche del forte calo di prezzo del petrolio, che incide grandemente nelle dinamiche inflazionistiche europee.
4. L’effetto congiunto della riduzione dei tassi sui mutui e dell’aumento della liquidità sui mercati avrebbe dovuto essere un sensibile aumento del valore delle attività finanziarie e reali, comprese le case. Iproprietari immobiliari e coloro che hanno investito i risparmi in azioni o obbligazioni societarie in questo caso si sarebbero dovuti ritrovare patrimoni più importanti, con un invito a spendere di più aumentando le spinte inflattive. Non è stato vero in tutta Europa e soprattutto in Italia, dove l’80% delle famiglie italiane proprietarie di case ha dovuto fare i conti con le spinte deflattive causate dall’elevata tassazione immobiliare. Oltre alla carenza di finanziamenti bancari, che hanno impedito di fatto la creazione di una tensione da domanda sui prezzi. Qualche vantaggio per gli investitori in azioni, per i corsi delle quali invece la grande liquidità ha fatto aumentare notevolmente gli indici di Borsa.
Infine, come effetto collaterale, con i bilanci alleggeriti da un eccesso di titoli di Stato, gli istituti bancari avrebbero avuto un incentivo a usare il denaro incamerato per dare più prestiti. Ricordiamo ancora le Aste Targeted longer-term refinancing operations (Tltro) riservate alle banche per rifornirle di fondi a bassissimo costo, finalizzati espressamente alla concessione di nuovi prestiti. Poco realizzato anche questo effetto, perché le banche hanno preferito tenersi in pancia i denari e investirli nel rimborso di proprie passività o rinforzare gli indici di solidità patrimoniale, in barba alle speranza dei regolatori.
di | 5 settembre 2017

martedì 5 settembre 2017

Wikileaks hackerato da OurMine? Uno scherzetto su cui riflettere

di | 4 settembre 2017  Il Fatto Quotidiano



Chi la fa, l’aspetti.
Wikileaks promuove l’hackeraggio della combriccola di pirati arabi OurMine e diventa bersaglio proprio dei soggetti che si augurava di vedere arrembati. Chi si è collegato all’insediamento virtuale che abitualmente svela ingombranti segreti di Stati e multinazionali si è trovato dinanzi ad una imbarazzante pagina in cui l’hacking team saudita mostra un proprio logo e spiega l’avvenuta incursione. Il sito web dell’organizzazione dell’ormai celeberrimo Julian Assange affonda non per una debolezza propria, ma per la fragilità insita nel sistema di comunicazione di Internet.
La manovra posta in essere dagli spregiudicati esperti di protezione informatica di OurMine.org (che vende penetration test e altri discutibili check di sicurezza in Rete) consiste in un attacco ai Domain name server (Dns) ovvero agli apparati che instradano chi naviga online verso la destinazione desiderata.
Questi dispositivi “traducono” l’indirizzo digitato dall’utente (nella fattispecie www.wikileaks.org) nelle coordinate telematiche (in questo caso il numero IP 141.105.65.113) necessarie per raggiungere quanto di interesse. Il funzionamento dei Dns evoca la romantica atmosfera della telefonia degli anni Sessanta, quando – prima che nascesse la teleselezione e chiunque potesse collegarsi in autonomia a qualsiasi utente in qualunque altra città – per fare una chiamata interurbana si doveva passare attraverso i centralini della società telefonica. Come allora si forniva il nome e l’indirizzo dell’interlocutore desiderato e la centralinista stabiliva il contatto, oggi si digita l’url desiderato e il Dns provvede a “comporre il numero” richiesto e a generare la connessione.
Come un’immaginaria operatrice ubriaca avrebbe potuto collegare una persona sbagliata, così un sistema Dns “ipnotizzato” da un malintenzionato può dirottare il cybernauta su un sito totalmente estraneo anche se sulla barra di navigazione del browser utilizzato compare il nome del web desiderato. In questa maniera, si immagina una violazione delle misure di sicurezza adottate dalla presunta vittima dell’attacco e invece ci si trova di fronte ad una sorta di dirottamento, ma l’utente (anche quello non inesperto) ha l’impressione che la sua meta sia stata profanata.
Lo “scherzetto” a Wikileaks è stato di breve durata e la situazione di normalità è stata rapidamente ripristinata, ma il pur ridotto lasso di tempo del disservizio è stato sufficiente a creare disagio anche perché il sito di Assange è sempre stato considerato inespugnabile e ben lontano dal soffrire debolezze di sorta.
In circostanze del genere, il problema della sicurezza è facile a capirsi, riguarda i fornitori di servizi telematici che assicurano anche la corretta “circolazione” di chi naviga online e il regolare rintraccio e raggiungimento di dati, informazioni, notizie.
La tecnica del Dns poisoning – quella dell’avvelenamento o inquinamento dei server di risoluzione dei nomi a dominio – costituisce una minaccia tutt’altro che trascurabile. Cosa succede se qualcuno decide di applicarla in danno a siti o sistemi istituzionali che erogano servizi alla cittadinanza?
In un momento storico in cui il governo riscopre il ruolo strategico delle reti di comunicazioni e delle aziende del settore, varrà la pena non risparmiare qualche riflessione anche a questo proposito.
@Umberto_Rapetto
di | 4 settembre 2017

lunedì 4 settembre 2017

La grande fuga dai nuovi voucher L’Inps: “Ci sarà un crollo dell’80%” (MARCO RUFFOLO)

Il caso.I vincoli introdotti con la riforma per evitare il referendum hanno ridotto le prestazioni occasionali. Ora il rischio è il sommerso.
ROMA.
«La vendemmia anticipata la facciamo con amici e parenti: i nuovi voucher sono troppo complicati, non riusciamo a utilizzarli. Chi può, arriva addirittura a preferire i contratti a tempo determinato». Gli agricoltori della marca trevigiana sono in buona compagnia nel denunciare la burocratizzazione di uno strumento pensato in origine per lavori occasionali e veloci. Ma non è solo un problema procedurale. Pochi mesi fa, una legge fatta in quattro e quattr’otto per evitare il referendum anti-voucher della Cgil, ha trasformato i vecchi buoni-lavoro in contratti di prestazione occasionale, vincolati a un complicato intreccio di limiti e divieti, che impedisce alla maggior parte delle imprese di accedervi.

L’80 PER CENTO IN MENO
I primi 45 giorni di vita del nuovo strumento ci consegnano in realtà un bilancio assai magro. Sono appena 6.742 i lavoratori che hanno svolto finora prestazioni occasionali: quasi tutti (6.056) al servizio di microimprese, e solo 686 per lavori familiari. Sulla piattaforma Inps si sono registrati 16.250 utilizzatori e 10.767 lavoratori, per un totale di oltre 27 mila utenti. «Non potevamo attenderci un livello più alto di ricorso al lavoro occasionale », commenta il giuslavorista Pietro Ichino, senatore del Pd. «La legge ora esclude da questa opportunità tutte le imprese con più di 5 dipendenti stabili: in questo modo si è tagliato fuori il novanta per cento della platea di datori di lavoro che nel regime precedente potevano utilizzare i voucher». Ecco uno dei nuovi paletti, sicuramente il più ingombrante. Tanto da ridimensionare drasticamente le previsioni di accesso ai nuovi voucher elaborate dall’Inps. Secondo l’Istituto di previdenza, non si supererà il 20% di quanto realizzato nel 2016, anno che registrò un picco di 1,6 milioni di lavoratori e 134 milioni di voucher. L’80% in meno significa che ci dobbiamo aspettare a regime poco più di 300 mila prestatori di lavori occasionali. La spiegazione che viene data sta tutta nella nuova costruzione di vincoli e divieti. I quali sono stati inseriti per tutelare meglio i lavoratori, per evitare l’abuso di lavori normali spacciati per occasionali (anche se si era già provveduto a rendere obbligatoria la tracciabilità). E soprattutto per scongiurare il referendum incombente.
VINCOLI E DIVIETI
Vediamoli allora questi nuovi vincoli. Non c’è solo il limite che circoscrive la platea delle imprese a quelle con non più di 5 dipendenti a tempo indeterminato. Ci sono vincoli anche al tipo di attività: le imprese agricole sono ammesse solo se impiegano pensionati, studenti under 25, disoccupati e cassintegrati. Sono escluse imprese edili, cave, miniere e opere e servizi svolti in appalto. Le pubbliche amministrazioni possono accedervi con progetti speciali per categorie svantaggiate, attività di solidarietà, manifestazioni sociali, sportive, culturali e caritative. Le famiglie, invece, possono chiedere piccoli lavori domestici, assistenza domiciliare a bambini e anziani malati o disabili, e lezioni private. Tetto alle ore lavorate: 280 l’anno. Tetto agli importi: ogni lavoratore non può incassare più di 5 mila euro l’anno da tutti i suoi datori di lavoro (contro i precedenti 7 mila), e non più di 2.500 euro dallo stesso utilizzatore. Se si supera questo limite, il rapporto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Il compenso giornaliero non può essere inferiore a 36 euro. Quello orario deve essere di almeno 9 euro netti e 12,37 lordi per le imprese, e di almeno 8 euro netti e 10 lordi per le famiglie. Il vecchio regime prevedeva cifre inferiori: 7,5 e 10 euro.
Facile prevedere, di fronte a questo ginepraio di vincoli, un forte ridimensionamento del fenomeno voucher. «I primi dati dell’Inps mi sembrano molto bassi», commenta il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. «Segno evidente che questa norma è stata pensata non per trovare uno strumento utile a lavoratori, imprese e famiglie, ma solo per evitare il referendum, per scoraggiare l’uso del lavoro occasionale. Che è diventato anche molto complicato da utilizzare».
Oltre ai paletti legislativi, infatti, ci si è messa pure la procedura di accesso alla piattaforma on line dell’Inps a complicare le cose, anche se ad agosto la situazione è migliorata. Lavoratori e utilizzatori devono registrarsi nel sito dell’istituto. Tre i modi: con il Pin, ma servono giorni per ottenerlo, con lo Spid tramite le Poste o con la Carta nazionale dei servizi. Dopo la registrazione, scatta il versamento dei datori di lavoro sul proprio “portafoglio elettronico”: all’inizio si poteva usare solo il modulo F24, da agosto è ammessa la carta di credito. A questo punto bisogna comunicare la prestazione: i dati dell’utilizzatore e del lavoratore, il tipo di impiego, il luogo, la durata e il compenso pattuito. Una volta terminata la prestazione, il lavoratore deve accedere nuovamente al sito e confermare l’avvenuto lavoro. Ed entro il 15 del mese successivo viene pagato dall’Inps.
IL RISCHIO SOMMERSO
Insomma, un percorso molto più accidentato di quello richiesto con i vecchi voucher, reperibili dal tabaccaio e facilmente utilizzabili; un percorso che richiede il più delle volte la guida di un consulente.
Articolo intero su La Repubblica del 01/09/2017.

domenica 3 settembre 2017

Dopo 10 anni di crisi finanziarie, arrivano i primi segnali di ripresa. Dobbiamo fidarci?


Sono passati nove anni dal crollo della Lehman Brother, ma la crisi finanziaria iniziò un anno prima, alla fine di agosto del 2007 quando la Northern Rock chiese aiuto alla Banca d’Inghilterra per evitare la bancarotta. A dieci anni di distanza, vale la pena interrogarsi sulla fantomatica ripresa economica di cui tutti parlano.
Nessuno può negare che dall’estate del 2007 fino a quella del 2017, l’economia mondiale ha sofferto a causa di una serie di crisi finanziarie. La prima è partita dal Regno Unito, nonostante gli aiuti Northern Rock venne nazionalizzata per garantire i risparmiatori ed evitare il panico. Poi fu la volta di Bearn Stearns, negli Stati Uniti, all’inizio del 2008, un anno in cui i mercati videro crollare come birilli alcuni dei giganti della finanza.
Nel 2011 fu la volta della crisi del debito sovrano in Europa che è durata più o meno fino al 2013. Nel 2015 è crollato il mercato azionario cinese seguito da una svalutazione del renminbi a sorpresa. Durante tutti questi anni l’economia globale ha registrato un crescita lenta e farraginosa, che in alcuni paesi è stata anche negativa. Ma da qualche mese, gli indicatori economici sembrano dirci che questo lungo periodo di crisi volge al termine. Sarà vero?
Prima di rispondere analizziamo i pericoli. In primis un crollo dei prestiti subprime per l’acquisto di automobili. Negli Stati Uniti il mercato delle auto è cresciuto del 70 per cento negli ultimi sette anni, e la morosità dei prestiti è molto alta. Il rapporto debito/Pil in Cina è salito al di sopra del 300 per cento e viene giudicato da tutti troppo elevato, esiste la possibilità di un crollo. Anche il debito globale è salito vertiginosamente nel 2017 è arrivato a 217 mila miliardi di dollari, 70 miliardi di più che nel 2007. Con tassi d’interesse bassi gli investitori creano continuamente nuove bolle. Infine la concentrazione degli investimenti è salita: sembra un paradosso ma le istituzioni finanziarie sono più grandi oggi di dieci anni fa.
Nonostante queste preoccupazioni molti sono moderatamente ottimisti. Per la prima volta dallo scoppio della Grande recessione del 2007, l’economia globale appare in una fase di ripresa economica sincronizzata, anche se meno forte in alcuni paesi ed in via di accelerazione in altri. Ciò che si sta verificando, insomma, potrebbe essere un’espansione coordinata e sostenibile in tutto il mondo.
L’Europa, in particolare, promette una ripresa forte mentre il Giappone sembra essere in procinto di venir fuori da alcuni sconvolgimenti economici e finanziari che lo hanno danneggiato per decenni. E la crescita della Cina è sicuramente stabile ed a livelli più elevati e veloci di quanto si era previsto. Anche altri mercati emergenti, come il Canada e l’Australia, si trovano in fase di ripresa economica. Ma l’importante è che tutto ciò avvenga in sincronia.
La ripresa attuale segue un rallentamento economico reale in tutto il mondo iniziato nel 2015 a seguito dell’apprezzamento del dollaro e del calo dei prezzi del petrolio. A Wall Street abbiamo ad un rimbalzo dei guadagni negli Stati Uniti, quelli del primo trimestre del 2017 sono stati abbastanza forti, un rally insomma, ma bisogna aspettare la fine del terzo trimestre per averne conferma.
A questo punto alcuni anticipano cambiamenti nella politica monetaria, e cioè la rimozione degli stimoli. Certo se la ripresa è globale e sincronizzata, allora ha senso che le banche centrali inizino a rimuovere alcuni degli stimoli e che lo facciano in concerto. E’ anche vero che nel lungo periodo, la pressione al rialzo dei tassi di interesse potrebbe imporre una correzione sul mercato azionario. In parte il rally del mercato azionario è legato ai tassi di interesse eccezionalmente bassi. La correzione potrebbe essere del 20 per cento se improvvisamente i rendimenti decennali del Tesoro passassero al 3 per cento o a livelli più alti. Tuttavia, se questo avvenisse allora è probabile che i tassi a lungo termine torneranno a scendere, a quel punto il mercato azionario potrebbe avere di un nuovo rally.
Il problema in borsa è la composizione del rally ma lo è anche per la ripresa. Dall’inizio del 2017 l’indice Standard&Poor è salito dell’11 per cento, un record ai livelli attuali. Ma quando si va ad analizzare i dati ci si accorge che la crescita è imputabile a una manciata di grosse imprese, tra queste c’è Amazon, Microsoft, Facebook, Apple e Johnson&Johnson. Il problema è che l’eccellente andamento delle azioni di queste imprese ha contribuito per quasi il 30 per cento alla salita degli indici del mercato azionario compensando anche la caduta delle azioni di imprese che operano nel settore dei consumi ed in quello immobiliare. La crescita, in altre parole, è tutta attribuibile al settore dell’alta tecnologia elettronica e di Internet.
Il pericolo è che gli investitori non siano più in grado di differenziare il proprio portafoglio e smettano di acquistare le stesse azioni. Oppure che uno shock esterno, ad esempio un evento imprevedibile a carattere politico, diventi la scusa per una grossa correzione del mercato.
L’alta concentrazione della composizione dei portafogli azionari è il vero ostacolo alla ripresa economica. E sicuramente questo è il motivo per cui le autorità monetarie del villaggio globale sono caute riguardo al cambio di tendenza della politica monetaria. Alzare i tassi per poi doverli abbassare di nuovo non è auspicabile per nessuno.
di | 3 settembre 2017

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