venerdì 4 agosto 2017

(Oggi è) l’Overshoot day per il mondo, non per l’Italia: noi siamo in deficit dal 19 maggio

di Luca Aterini da greenreport



Prima del 1965 l’Overshoot day – il “giorno del sovrasfruttamento” – non era cosa che riguardasse l’Italia: l’impronta ecologica della popolazione (ovvero le nostre necessità di utilizzare risorse dalle aree agricole, dai pascoli, dalle foreste, dalle aree di pesca e lo spazio utilizzato per le infrastrutture e per assorbire il biossido di carbonio, la CO2) era inferiore alla biocapacità nazionale, intesa come la capacità dei sistemi naturali prima indicati di produrre risorse e assorbire biossido di carbonio. Da allora molto è cambiato. La biocapacità non è – naturalmente – aumentata, mentre la crescita dell’impronta ecologica italiana è avanzata inesorabile.
Come risultato finale, nel 2017 l’Overshoot day è arrivato a bussare alle nostre porte ben prima di quanto facesse con quelle del mondo intero. L’Earth overshoot day, ovvero la data in cui la richiesta di risorse naturali dell’umanità supera la quantità di risorse che la Terra è in grado di generare nello stesso anno, è un valore medio: alcuni Stati impattano di più, altri di meno. E se per il mondo il “giorno del sovrasfruttamento” è giunto oggi, in Italia è arrivato senza far rumore il 19 maggio scorso.
Concretamente, questo significa che la nostra impronta ecologica è più alta di quella media mondiale, e che in neanche cinque mesi abbiamo esaurito tutto il budget di risorse rigenerabili nel corso dell’anno che il nostro territorio ci mette a disposizione: un modello di vita a credito (ambientale) che, se fosse seguito da tutti i 7,5 miliardi di esseri umani oggi viventi, richiederebbe le risorse di 2,6 pianeti Terra per essere sostenibile.
Di pianeti, però, ne abbiamo a disposizione soltanto uno. Converrebbe prendercene debitamente cura. «Il nostro pianeta è finito, ma le possibilità umane non lo sono – spiega Mathis Wackernagel, Ceo del Global footprint network che ogni anno si occupa di conteggiare l’Earth overshoot day, e co-creatore dell’impronta ecologica – Vivere all’interno delle capacità di un solo pianeta è tecnologicamente possibile, finanziariamente vantaggioso ed è la nostra unica possibilità per un futuro prospero».
Finora non ne siamo stati in grado. La data dell’Earth overshoot day è caduta sempre prima della naturale scadenza al 31 dicembre, a partire dagli anni ‘70: l’allarme suonava a fine di settembre nel 1997, 20 anni fa, e si è anticipato fino al 2 agosto di quest’anno, mai così presto. Oggi, è come se ci servissero 1,7 pianeti Terra per soddisfare il nostro fabbisogno attuale di biocapacità.
I segnali di questo declino sono ormai innumerevoli: il 2016 è stato l’anno più caldo a livello mondiale raggiungendo un incremento di 1.1°C rispetto al periodo preindustriale, come ricordano dal Wwf, mentre «la somma di tutti gli output di materia che vengono trasformati e consumati dall’umanità (e che includono le componenti derivanti dalle attività umane urbane, agricole e marine, con l’utilizzazione dell’energia e dei flussi di materia necessarie alle nostre economie) viene indicata in una stima preliminare che raggiunge i 30.000 miliardi di tonnellate».
La buona notizia è che possiamo ancora tornare indietro, il declino non è ineluttabile: se posticipassimo l’Overshoot day di 4,5 giorni ogni anno – calcolano dal Global footprint network – potremmo ritornare ad utilizzare le risorse di un solo pianeta entro il 2050. In parte si tratta di un processo già in corso, come mostra proprio l’esempio italiano.
La nostra impronta ecologica ha continuato ininterrottamente a crescere negli ultimi decenni, fino a invertire la rotta nel 2007, con l’arrivo della crisi finanziaria prima ed economica poi. Oggi impattiamo meno sull’ambiente, al prezzo però di un’economia che non funziona. Fare di meglio è possibile, oltre che indispensabile: ad esempio, tra il 2005 e il 2013 l’impronta ecologica pro capite degli inquinanti Usa è scesa quasi del 20% rispetto al suo picco, e nello stesso periodo il Pil pro capite statunitense è cresciuto del 20%, disaccoppiando dunque la crescita economica dal consumo di biocapacità. Anche l’Italia ha imboccato – suo malgrado – questa strada tagliando risultati importanti. Ora è il momento di guidare, e non più subire, questa transizione, creando benessere per la popolazione e salvaguardando l’ambiente che sostiene (anche la nostra) vita.
«In questa situazione – spiega Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia e membro del think tank di greenreport – è urgentissimo dare immediata concretizzata agli accordi presi in sede internazionale per migliorare lo stato del Sistema Terra e provare a sanare l’enorme “debito ecologico” che abbiamo con il nostro Pianeta e i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. È urgente attivare l’Agenda 2030 con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, considerandoli in maniera interconnessa e impostare una nuova economia capace di seguire i processi circolari della natura che la nostra visione economica dominante ha purtroppo trasformato in processi lineari con la produzione di scarti, rifiuti e inquinamento».

giovedì 3 agosto 2017

Migranti, il pm inchioda la ong tedesca: "Contatti coi trafficanti"

  "Ci sono gravi indizi di colpevolezza". Il procuratore aggiunto di Trapani Ambrogio Cartosio fa luce sul sequestro della nave "Iuventa" e mette sul tavolo le accuse mosse dalla procura alla ong tedesca "Jugend Rettet".

Si parla di "favoreggiamento dell'immigrazione clandestina". Un reato commesso dall'equipaggio che si trova a bordo della "Iuventa". Nel dossier reso pubblico oggi ci sono "gravi indizi di contatti con i trafficanti" da parte dell'equipaggio. "Non possiamo guardare in faccia nessuno - tuona il magistrato - è una indagine delicata che ci rendiamo conto può essere oggetto di strumentalizzazioni, rischio che non può frenare le indagini".
Al momento non ci sono indagati. Ma, a detta del pm Cartosio, c'è il serio pericolo della reiterazione del reato. "E poi - spiega - ricorre il caso in cui la legislazione speciale prevede la confisca del mezzo che interviene in caso di condanna dei proprietari e questo ci impone di ricorrere al sequestro preventivo accettato dal gip". Investigatori del Servizio centrale operativo, della Squadra mobile di Trapani e del Nucleo Speciale d'intervento della Guardia costiera hanno eseguito il sequestro preventivo della motonave battente bandiera olandese ma gestita dall'organizzazione non governativa tedesca che non ha firmato il codice di condotta del Viminale. Sono tre gli episodi contestati, 18 e 26 giugno, nonché il 10 settembre. La procura di Trapani, però, ne avrebbe riscontrati anche altri. Tanto da averla portata a credere che "questa condotta sia abituale". L'indagine riguarda l'equipaggio della nave e, allo stato, "non sono emersi responsabilità sui responsabili della Ong".
"La nave - ha sottolineato il procuratore - è stabilmente utilizzato nel soccorso di migranti in prossimità delle coste libiche e al loro trasbordo su altre navi sempre in acque internazionali, permanendo abitualmente nel mare libico, in prossimità delle acque territoriali del Paese africano". Non solo. Sempre secondo il magistrato "il salvataggio o, meglio, il trasbordo" dei migranti sarebbe avvenuto senza che ci fosse un pericolo imminente (guarda il video). "I migranti vengono scortati dai trafficanti libici e consegnati non lontano dalle coste all'equipaggio che li prendono a bordo della 'Iuventa' - ha spiegato Cartosio in conferenza stampa - non si tratta dunque di migranti 'salvati', ma recuperati, potremmo dire consegnati. E poiché la nave della Ong ha ridotte dimensioni, questa poi provvede a trasbordarli presso altre unità di Ong e militari". Per il procuratore aggiunto, reggente della procura di Trapani, "alla luce delle vigenti norme, integrano il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina". Un'attività per la quale, secondo Cartosio, i membri dell'equipaggio non prendono alcun compenso dai trafficanti. "L'unico ritorno possibile ed eventuale potrebbe essere solo di immagine e in termini di donazioni".

mercoledì 2 agosto 2017

George Soros finanzia l'invasione degli immigrati: soldi alla rete di Onlus che diffonde dati a senso unico

9 Luglio 2017 Libero quotidiano
George Soros finanzia l'invasione. E chi sostiene che si tratti di una sorta di delirio, farebbe bene a leggere quanto segue. In breve, alcuni titoli di articoli riportati da Il Giornale. "Italia, davvero chiudere ai porti salvati in mare è un'opzione?", titolo di uno dei dieci migliori articoli sull'immigrazione secondo Open Migration (scontata la risposta). E ancora: "Con i contributi degli stranieri pagate 600mila pensioni l'anno", titolo di un comunicato della Fondazione Leone Moressa. Dunque: "Stop all'uso improprio di clandestino", titolo di un articolo dell'associazione Carta di Roma. Titoli clamorosamente - e in modo miope - a favore dell'immigrazione. E che c'entra Soros? Presto detto: sono studi, titoli e ricerche che provengono - tutti - da associazione italiane finanziate da Soros attraverso la sua Open Society Foundation. È quanto emerge da una ricerca pubblicata dal blogger Luca Donadel e firmata da Francesca Totolo, esperta di comunicazione. Un dossier che ricostruisce la rete di Onlus, italiane e straniere, che sarebbero finanziate dalla lobby gestita dallo speculatore finanziario americano di origini ungheresi.
Certo, nulla di illegale. Ma restano i fatti: Soros finanzia l'invasione, seppur indirettamente, diffondendo dati e studi pro-immigrati. Un impegno capillare, il suo, per orientare le scelte dei governi verso la cosiddetta "società aperta". Per farlo, secondo la ricerca, Open Society finanzia decine di associazioni. Alcune si occupano di assistenza materiale ai profughi. Altre, come la fondazione Leone Moressa e Open Migration, sono invece impegnate a diffondere informazioni, vien da dire a fare propaganda favorevole al fenomeno migratorio. E infine, è eclatante e un poco preoccupante il caso della già citata associazione Carta di Roma, alla quale aderiscono Ordine dei giornalisti e Federazione nazionale della stampa.
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
ora, a parte alcuni termini oggettivamente esagerati e fuoriluogo, non è la prima volta che George Soros sale alle cronache in relazione ai migranti: allora per una lettera che aveva scritto a un giornale americano dove sosteneva che poteva risultare redditizio il favorire l'arrivo di nuove idee al seguito di persone che si spostavano da un paese all'altro e da un continente all'altro, ecc. ecc. e ora per.. questo. Ognuno ne tragga le proprie conseguenza ma non era credibile che decine di migliaia di persone si possano spostare impunemente attraverso Stati e per mare.... si sa il tipo lavora per fare soldi e per farli fare e quindi sa che se è possibile farli sulla pelle di essere umani scaricando i costi sugli Stati non si fa certo problemi in merito e poi portare un pò di confusione smuovendo e minando le basi sociali per trarne profitti non si fa mica problemi!!!!
 

martedì 1 agosto 2017

Per la prima volta studiato il DNA delle mummie: dagli egizi agli egiziani, molto è cambiato

Popoli e Culture 31 maggio 2017 13:23 di Andrea Centini  scienze fanpage

Grazie all’analisi del DNA di 93 mummie è stato scoperto che gli antichi egizi erano imparentati con popolazioni mediterranee e del Medio Oriente, mentre gli egiziani moderni hanno un profilo genetico più influenzato dai popoli sub-sahariani.

Archeologi delle università tedesche di Tubinga e Jena hanno scoperto che gli antichi egizi, perlomeno quelli dell'area centrale del paese africano, dal punto di vista genetico non hanno subito influenze tangibili dai conquistatori stranieri – come quelli guidati da Alessandro Magno – in epoca tolemaica e romana. Presentano invece uno spiccato legame con le popolazioni del Medio Oriente e del cosiddetto Levante, un'area che abbraccia il Mediterraneo orientale e comprende Israele e Palestina, sintomo evidente di floridi scambi commerciali e culturali.
La scoperta risulta particolarmente interessante poiché deriva dall'analisi del DNA di ben 93 mummie, che sino ad oggi si riteneva scarsamente attendibile – e verificabile – non solo per le procedure di mummificazione e le peculiari condizioni di temperatura e umidità nelle quali si trovavano, ma anche per le contaminazioni degli archeologi che hanno maneggiato i reperti. “Il caldo clima egiziano, gli elevati livelli di umidità in molte tombe e alcune delle sostanze chimiche adottate nelle tecniche di mummificazione contribuiscono al degrado del DNA. Si riteneva quindi che fosse improbabile la sopravvivenza a lungo termine del DNA nelle mummie egiziane”, ha sottolineato il coautore dello studio Johannes Krause, archeologo presso il Max Planck Institute di Tubinga.
Le mummie analizzate, messe a disposizione dai musei di Berlino e Tubinga, provenivano tutte dal sito archeologico di Abusir el-Meleq, nei pressi del Nilo, ed erano state sepolte tra il 1.400 ac e il 400 dc. Il DNA è stato esaminato in stanze sterilizzate e sono stati applicati raggi UV al fine di eliminare potenziali contaminazioni di materiale genetico moderno. Per 90 mummie è stato esaminato il DNA mitocondriale, quello che viene trasmesso dalla madre ai figli, mentre per tre, grazie all'ottimo stato di conservazione, è stato possibile verificare anche quello nucleare.

Il dato sulla provenienza delle mummie è rilevante poiché esclude dalla valutazione le influenze genetiche nell'Egitto meridionale e settentrionale, laddove soprattutto quest'ultimo fu influenzato dalla presenza degli eserciti conquistatori. La mescolanza tra i romani e gli antichi egizi potrebbe essere stata ostacolata anche da motivi di interesse, dato che chi sposava un romano acquisiva automaticamente anche la relativa cittadinanza. Curiosamente, il profilo genetico degli antichi egizi è sensibilmente differente da quello moderno, dove è presenta la “firma” di popolazioni sub-sahariane, probabilmente agevolate dal tempo grazie alle migliori condizioni di navigabilità del Nilo. I dettagli dello studio sono stati pubblicati su Nature Communications.
[Foto di wikipedia]

lunedì 31 luglio 2017

Addio badge: arriva microchip sotto pelle per timbrare il cartellino

25 luglio 2017, di Mariangela Tessa WSI

Presto non ci sarà più bisogno di timbrare il cartellino. Basterà infatti un microchip inserito sotto la pelle, per accedere alla propria sede di lavoro. Negli Stati Uniti, l’esperimento partirà il primo agosto. Da allora infatti, un’azienda del Wisconsin (River Falls), la Three Square Market (32square.com), inizierà la prova: finora più di 50 degli 85 dipendenti hanno accettato la novità.
Grazie al microchip, dalle dimensioni di un chicco di riso, impiantato tra indice e pollice, i cyber-dipendentipotranno anche pagarsi bibite e snack al distributore interno.
“I microchip sono il futuro nel campo dei pagamenti, e noi vogliamo essere parte di questo fenomeno”, spiega Todd Westby, il ceo della startup che fornisce macchinette e software per la pausa pranzo agli uffici e negozi, specificando che “Il tutto senza senza rischiare nulla dal punto di vista della privacy, perché il chip non ha Gps integrato”.
Chi ci ripensa, potrà comunque farne a meno in pochi secondi, perché il microchip si può rimuovere come una scheggia.
Rifornitore dei microchip è la BioHax, azienda svedese specializzata in sensori biometrici, che mette a disposizione dispositivi da 300 dollari l’uno abilitati anche per il “near-field communications” (Nfc) così da funzionare come una carta di credito ”contactless”. In Svezia, questa tecnologià è stata già adottata dalla startup Epicenter.

:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
fin qui una news come tante: ma.... a mio parere è l'ennesimo tassello con cui ci stiamo da soli mettendo il cappio al collo. L'ultimo lembo di libertà ci sta per essere tolto i nome della praticità, del lavoro, ecc. dovremmo essere contenti perchè spariranno: carte di credito, carte sanitarie, carte d'identità e tutto quel che fino a ora ha fatto parte del nostro quotidiano; in loro vece avremo tutti un microchip sottocutaneo che conterrà, non solo, il vecchio badge con cui entrare al lavoro ma tutto il resto di cui sopra e tanto altro ancora... e visto che sono privati i produttori ci potrete scommettere che privati saranno anche i controllori: o meglio pubblico sarà l'ente appaltante e il controllo ma chi li gestirà direttamente.. saranno privati con tutto quel che significa una cosa del genere: a partire dalla conoscenza diretta dei nostri acquisti e comportamenti consumistici per finire a i nostri movimenti, desideri, malattie, e quant'altro e tutto in un .... microchip. Ne avevo parlato in due post di questo blog e un link a wikipedia, il terzo:
  1. RFID: l'ultima frontiera ... del consumo;
  2. RFID: non è fantascienza..;
  3. Microchip;
  4. Repubblica;
..... quindi in tempi NON sospetti e ricordo anche che atrove qualcuno derideva e qualcun'altro battezzava la cosa come complottismo e invece.... il futuro è qui!

domenica 30 luglio 2017

Evasione fiscale, per Bruxelles la trasparenza sulle tasse pagate dalle multinazionali deve restare un optional

di | 29 luglio 2017   Il Fatto Quotidiano

Trasparenza? Sì, ma col buco. Non c’è Lux Leaks che tenga. E poco importa se l’evasione delle multinazionali sottrae ai paesi Ue tra i 50 e i 70 miliardi di euro l’anno di mancate entrate fiscali. Per i cittadini europei avere informazioni chiare e complete su quante tasse pagano i grandi gruppi attivi sul loro territorio resterà un miraggio. La bozza di direttiva sulla “divulgazione di dati fiscali da parte di alcune imprese”, votata il 4 luglio dal Parlamento europeo, prevede infatti così tante scappatoie che, se passerà senza modifiche, meno del 10% delle grandi corporation dovrà pubblicare sul proprio sito una scheda con numero di dipendenti, ricavi, profitti e imposte versate in ogni Stato Ue in cui opera. Nel frattempo anche le iniziative per contrastare concretamente l’evasione fiscale, a livello europeo, languono. Le principali novità in materia derivano non da mosse di Bruxelles, ma da impulsi dell’organizzazione parigina Ocse, il “club” dei 35 Paesi da cui deriva l’80% del pil mondiale.
La scappatoia che annulla la trasparenza “per proteggere dati sensibili” – La pubblicazione su internet dei principali dati societari e fiscali divisi per Paese di attività era considerata dalla Global alliance for tax justice un passo importante. In questo modo, era il ragionamento del movimento internazionale che chiede una più equa distribuzione della ricchezza globale, l’opinione pubblica avrebbe gli strumenti per capire se le multinazionali godono di trattamenti di favore o sfruttano schemi societari ad hoc per spostare i proventi nei Paesi fiscalmente più convenienti. Sottraendo risorse che potrebbero essere usate per servizi pubblici e infrastrutture. Ma l’europarlamento, chiamato a emendare la proposta presentata dalla Commissione nell’aprile 2016 per poi avviare i negoziati con il Consiglio europeo, ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Con una mano, su richiesta del gruppo S&D, ha rafforzato il testo della Commissione imponendo la pubblicazione dei dati disaggregati per ogni Paese (“country by country reporting”) invece che per le sole giurisdizioni europee e per i paradisi fiscali. Con l’altra, su spinta dei gruppi conservatori e dell’Alde, ha inserito un articolo che consente agli Stati membri di autorizzare i grandi gruppi a omettere “uno o più elementi di informazione” per “proteggere dati sensibili dal punto di vista commerciale e assicurare una concorrenza leale”.
Una clausola di salvaguardia che per il gruppo dei Socialisti e democratici “permetterà alle multinazionali di non pubblicare dati ritenuti sensibili per un periodo illimitato”. Transparency international Eu ha sottolineato dal canto suo che il testo “cerca di tenere insieme tutto”: da un lato “esibisce un forte supporto riguardo alla trasparenza sugli accordi fiscali delle multinazionali”, dall’altro “lascia loro la possibilità di avvolgere i loro affari in una cortina di segretezza”. Per Oxfam, la cui petizione contro i paradisi fiscali ha raccolto finora oltre 350mila firme, quella clausola rischia di minare l’efficacia del provvedimento nel contenere gli abusi.
Obbligo di pubblicazione dei dati solo se i ricavi superano i 750 milioni – C’è da dire comunque che anche la proposta iniziale dell’esecutivo Ue faceva acqua. la pubblicazione dei dati societari è stata (e rimane, dopo il passaggio in Parlamento) prevista solo per le multinazionali con almeno 750 milioni di fatturato annuo. Secondo lo European Economic and Social Committee, organo consultivo dell’Unione che ha tra l’altro il compito di fornire pareri a Parlamento, Consiglio e Commissione, fissare questa soglia equivale ad escludere l’85-90% delle aziende attive in più di un Paese. Perché non tutte le multinazionali hanno la stazza dei big statunitensi: l’Italia, per esempio, conta decine di medie aziende della meccanica, dell’alimentare e dell’abbigliamento con sedi in più di un Paese ma fatturati inferiori a quella soglia. “Applicare la misura proposta soltanto ad un simbolico 15% di questa categoria di imprese vorrebbe dire perdere di vista le preoccupazioni di quasi ogni cittadino europeo”, aveva avvertito lo scorso anno Victor Alistar, relatore del parere del comitato. Preoccupazione identica a quella espressa dallo European Network on Debt and Development, un gruppo di ong che si battono per un sistema finanziario più equo. Ma l’asticella è rimasta invariata.
Le promesse di Dijsselbloem e Moscovici dopo il caso Apple – La commissione si era mossa dopo che la responsabile della concorrenza Margrethe Vestager, al termine di due anni di indagini, aveva dichiarato “non conformi alle regole europee” i trattamenti fiscali di favore concessi rispettivamente da Lussemburgo e Paesi Bassi a Fiat finance and trade Starbucks, chiedendo ai due gruppi di restituire almeno 40 milioni. In agosto poi Apple sarebbe stata chiamata a sborsare 13 miliardi: l’equivalente delle tasse non pagate grazie a vantaggi non dovuti concessi dall’Irlanda. Dove, secondo la Commissione, il gruppo della Mela spostava i profitti realizzati nel resto dell’Unione per approfittare dell’aliquota ultraconveniente (meno dell’1%) concordata con Dublino. “Il mio messaggio alle multinazionali è: state combattendo la battaglia sbagliata. E’ tempo di voltare di pagina, i tempi stanno cambiando”, aveva tuonato poche settimane dopo il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. “Dovete pagare le tasse in modo corretto, parte negli Usa e parte nell’Ue. Preparatevi a farlo”. “In Europa c’è un profondo squilibrio tra il carico fiscale di multinazionali e piccole e medie imprese, con queste ultime che pagano il 30% di tasse in più, una situazione inaccettabile”, aveva attaccato per parte sua il commissario per gli Affari economici Pierre Moscovici. Il momento, insomma, sembrava propizio per imporre una “glasnost” ad ampio raggio. Sembrava. Ma, tra soglia di fatturato troppo elevata e clausola di salvaguardia, la trasparenza di fatto sarà molto limitata. Intanto, mentre non solo Apple ma anche il governo di Dublino hanno fatto appello contro la decisione della Vestager, pure le iniziative europee per contrastare concretamente l’evasione languono.
Arenata la lista dei paradisi fiscali. Base imponibile consolidata in discussione dal 2011 – La lista comune delle “giurisdizioni non cooperative“, vale a dire i potenziali paradisi fiscali, avrebbe dovuto essere completata entro la fine del 2016: invece il progetto si è arenato alla selezione dei criteri, delle linee guida e delle “misure difensive” da adottare. Quanto alla proposta di definire una base imponibile consolidata comune a livello europeo per l’imposta sulle società, parte di un più ampio “piano d’azione sulla tassazione delle corporation”, se ne parla dal 2011 ma l’opinione della commissione giuridica del Parlamento europeo arriverà solo il prossimo dicembre. E si attende ancora il pronunciamento dello European economic and social committee. Eppure unificare la base imponibile significherebbe sbarrare la strada allo shopping fiscale delle multinazionali (la pratica di spostare gli utili nei Paesi più compiacenti dal punto di vista della tassazione) e impedire agli Stati di concedere alle aziende aliquote agevolate con accordi come quelli (più di 500) siglati dal Lussemburgo quando il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker ne era primo ministro e finiti al centro dello scandalo dei LuxLeaks. Ne hanno beneficiato 340 multinazionali, dalla holding di Ikea a FedEx, da eBay a Telecom, passando per Fininvest e Intesa Sanpaolo.
I passi avanti nella lotta all’evasione? Merito dell’Ocse – Allargando lo sguardo, salta all’occhio che le principali novità in materia di lotta all’evasione sono scaturite non da mosse di Bruxelles, ma da impulsi dell’organizzazione parigina Ocse. Che ha promosso per esempio gli accordi sullo scambio automatico di informazioni fiscali firmati ormai da 100 Paesi. Compreso Panama, lo Stato dell’America centrale dove ha sede lo studio legale Mossack Fonseca che, come rivelato dall’inchiesta giornalistica internazionale nota come Panama Papers, gestiva i soldi di migliaia di personaggi noti creando società e conti offshore. Il sistema di condivisione automatica (Crs) è in vigore da quest’anno e entro il 21 agosto è prevista la prima comunicazione degli intermediari italiani, che dovranno inviare alle Entrate i dati su conti correnti, depositi, titoli e altre attività detenuti da persone residenti all’estero. Nel 2014, poi, l’Ocse ha messo a punto un articolato pacchetto di linee guida contro erosione fiscalespostamento dei profitti in Paesi a bassa tassazione (Beps). Fenomeni che stando alle sue stime sottraggono ai Paesi del G20 fino a 240 miliardi l’anno. Più di 70 Stati hanno sottoscritto, su quella base, un accordo multilaterale che prevede diverse azioni concrete: dal divieto all’uso di società veicolo con finalità elusive all’obbligo per le multinazionali di fornire un rapporto delle loro attività Paese per Paese. Proprio il tema della proposta di direttiva votata dall’Europarlamento. Se non fosse per quella scappatoia che la svuota di efficacia.
di | 29 luglio 2017

test velocità

Test ADSL Con il nostro tool potrete misurare subito e gratuitamente la velocità del vostro collegamento internet e ADSL. (c) speedtest-italy.com - Test ADSL

Il Bloggatore