giovedì 15 marzo 2018

Tringali: “Fuori da trappola euro”, questione di sicurezza nazionale

Fonte: WSI 15 marzo 2018, di Francesco Puppato
L’euro è un metodo di governo. Per questo la sovranità monetaria diventa una questione di sicurezza nazionale.
Provate a pensare se nel dopo Draghi, chiunque diventi presidente della BCE (il nome caldo è quello di Jens Weidmann, presidente della Deutsche Bundesbank), decidesse di non acquistare più i titoli di Stato italiani; cosa succederebbe?
Lo spread schizzerebbe alle stelle divenendo insostenibile e riportando la crisi ai livelli peggiori. Ma che democrazia è quella in cui un organismo non eletto da nessuno, detiene un così ampio potere sullo Stato?
Ad aumentare le preoccupazioni arriva la richiesta di Wopke Hoekstra, ministro delle finanze dei Paesi Bassi, che al Financial Times ha dichiarato che qualora si presentassero crisi del debito (si veda il caso della Grecia, con un riferimento futuro all’Italia), è necessario che anche gli investitori accettino una svalutazione del debito (Bond) di cui sono in possesso.
“È essenziale qualora le cose vadano male. In pratica, chiediamo che gli individui e le aziende in possesso delle obbligazioni governative paghino parte del conto”, ha dichiarato Hoeskstra ritenendo “onesta” la sua proposta.
Una sorta di bail-in, se vogliamo, che ha subito trovato l’endorsement di Austria e Finlandia, le quali si dichiarano stanche del fatto che siano i propri contribuenti a pagare i costi delle crisi dei Paesi più indebitati.
È nei fatti che provvedimenti come quello proposto dal ministro delle finanze olandese vadano a tradire quelli che dovrebbero i prinicipi fondanti di un’Europa dei popoli, che tutto fa tranne che aiutarsi.
Ne abbiamo parlato con il dottor Fabrizio Tringali, scienziato politico, autore del saggio “La trappola dell’euro” e del blog “Badiale&Tringali”, entrambi scritti a quattro mani con il professor Marino Badiale, ordinario di matematica presso l’Università di Torino.
“Si sa che questi acquisti di titoli non sono ben visti dai Paesi del nord e che relativamente presto finiranno (si parla di circa un anno). Nel frattempo, in questi giorni, i quotidiani riportano che Draghi ha lasciato intendere che non aumenterà gli acquisti di titoli qualora alcuni Paesi vedessero peggiorare le proprie condizioni.”
Continua poi lo scienziato politico:
“Quello che certamente succederà, è che la BCE smetterà di calmierare gli spread. Questo può succedere prima o dopo la fine del mandato di Draghi, ma succederà sicuramente, perché è stato già deciso e annunciato (quello che non è stato ancora deciso, o annunciato, è solo il “quando”).”
Pertanto, al momento, abbiamo due possibili scenari:
  • a) Se un Paese vedrà un innalzamento dello spread, la BCE non interverrà in aiuto, cioè non aumenterà l’acquisto di titoli, e quel Paese vivrà una nuova ondata di crisi.
  • b) Se quanto indicato nel punto precedente non accadrà, per i Paesi considerati più deboli, fra cui l’Italia, l’ondata di crisi arriverà comunque quando la BCE, come preannunciato, stopperà le attuali politiche di acquisto (il che può avvenire già con Draghi, senza attendere il suo successore).
È dunque possibile concludere che, finché si resta nella moneta unica, l’unica via di uscita dalla crisi è rappresentata dalla costruzione di un meccanismo di riequilibrio fra i Paesi in deficit e quelli in surplus. Ovviamente i Paesi in surplus devono essere d’accordo, e non lo saranno mai a meno che non si dia a loro le redini dell’intera politica economica e sociale dei Paesi in deficit.
Nel frattempo i governi continuano a dibattere di soluzioni che non risolveranno nulla, come quelle relative ai debiti pubblici. La recente proposta olandese si inscrive in questo quadro. Se sarà approvata, avrà un duplice effetto: farà ulteriormente diminuire la fiducia degli investitori nei confronti dei Paesi dell’eurozona considerati più a rischio, inasprendo la crisi, e farà crescere l’odio delle popolazioni di quei Paesi nei confronti delle istituzioni europee”.
In uno scenario come questo, quindi, la crisi sembra inevitabile e, nella migliore delle ipotesi, Paesi come l’Italia dovrebbero accettare di mettersi totalmente nelle mani dei Paesi del nord Europa; si verrebbe a creare un’Europa in cui i Paesi più deboli dovrebbero cedere la loro totale sovranità ai Paesi più forti, snaturando l’essenza, almeno dichiarata, di un’Europa dei popoli. O, semplicemente, l’Europa sta mostrando passo dopo passo la sua vera faccia.
È forse il caso di riproporre quelle due parole scritte a caratteri cubitali che erano apparse nelle prime pagine della stampa nazionale, ma questa volta con un monito ad uscire dall’euro: “FATE PRESTO!”

mercoledì 14 marzo 2018

Donald Trump: "America first! Costi quel che costi!"

Fonte: Megachip Redazione 14 marzo 2018 megachip.info di Piotr
1. Donald Trump ha cacciato Rex Tillerson dal Dipartimento di Stato per mettere al suo posto Mike Pompeo, un superfalco neo-liberal-cons (ovverosia fa parte del gruppo della Clinton, di McCain, di Petraeus e guerrafondai vari). Fino a ieri è stato direttore della CIA, messo lì proprio perché i neo-liberl-cons non avrebbero fatto passare altri nomi. Da tempo si stava lavorando Trump con briefing giornalieri, cosa inusitata per un direttore della CIA.

Adesso l'Agenzia sarà guidata da Gina Haspel. Per la serie politicamente corretta “le donne al potere sono meglio degli uomini”, la signora Haspel è una specialista in torture. Ha infatti diretto la prigione segreta della CIA in Thailandia e ha supervisionato in epoca Bush jr l'applicazione sperimentale delle nuove torture a Guantanamo.

Che ci sia una svolta verso una politica estera e interna ancora più dura e con pochi spazi per la diplomazia è evidentissimo. La domanda è: perché questa svolta e perché adesso?

È, a mio avviso, una risposta al discorso di Putin del 1° marzo.

2. Mi sa che molti non sanno nemmeno tanto bene cosa è successo il 1° marzo. Quel giorno Putin parlando al Parlamento russo ha rivelato che la Russia possiede nuove armi praticamente non intercettabili, che rendono impossibile agli USA il lancio del famoso first strike, a meno che mettano in conto la distruzione immediata di gran parte degli Stati Uniti.

Ora, lo si voglia ammettere o non lo si voglia ammettere, il first strike è ormai l'unico modo che gli Stati Uniti hanno per rovesciare il corso di una profondissima crisi storica (nel senso che preannuncia una svolta epocale nel mondo).

E siccome a Washington la crisi ha fatto diventare tutti psicopatici (non l'ho detto io, ma un ex ministro di Reagan) il rischio di first strike è serissimo e infatti l'attacco nucleare preventivo - persino contro potenze non nucleari - è stato appositamente inserito nella nuova dottrina militare statunitense varata da Bush jr e mantenuta, come Guantanamo e il Patriot Act, da Santo Obama.

Al contrario, Putin ha giurato che non lancerà mai un primo attacco nucleare perché è consapevole che sarebbe la distruzione di tutti, Russia compresa. Ma lasciata nelle mani degli psicopatici di Washington questa mossa diventa praticabile, nelle due varianti: quella immediata e quella progressiva.

Per quanto riguarda la variante immediata, a freddo, le nuove armi russe consentono che una ritorsione nucleare possa, ad esempio, partire dal Polo Sud passando sopra il Sudamerica a velocità ipersonica e con rotta ridefinibile dinamicamente, cosa per la quale gli USA non sono assolutamente preparati.

Ma il lato veramente importante della nuova forza difensiva russa è che essa ostacola la strategia americana della “guerra mondiale a pezzetti”, per usare la centratissima definizione di papa Francesco. Una strategia che in men che non si dica può trasformarsi in una guerra a tutto campo.

3. Il problema della geo-strategia statunitense è che alla potenza delle armi non corrisponde più la potenza di quel richiamo economico e ideologico che aveva permesso il consolidarsi di un enorme impero informale che aveva preso il posto e surclassato quello formale britannico precedentemente egemone. Si può ammazzare Gheddafi assieme a migliaia di libici, ma la Libia rimane in larga parte gheddaffiana. Si può cercare di installare al potere al Cairo l'amico fratello musulmano Morsi, ma il popolo e i militari egiziani lo rovesciano in pochi mesi (i nostri media, in odio ad al-Sisi, si sono dimenticati dei milioni di Egiziani che manifestavano contro Morsi). Si può distruggere l'Iraq laico al costo di un milione e mezzo di morti, ma la conseguenza è il suo avvicinamento sempre più spedito all'Iran e alla Russia. Si può invadere l'Afghanistan e rimanerne impantanati per 16 anni. Si può finanziare e armare di tutto punto un esercito di terroristi tagliagole “per far grondare la Siria di sangue” (come promise la Clinton) ma i Siriani hanno, con stupore idiota del Pentagono e della Cia, fatto quadrato attorno al loro esercito e al loro presidente (paradossalmente il governante più occidentalizzato del Medio Oriente) resistendo con immensi sacrifici fin quando la Russia non è stata in grado di intervenire.

Alleati di ferro come la Turchia fanno le bizze. Paesi dell'Est europeo come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l'Ungheria, in varie modalità e per varie ragioni si stanno pentendo della scelta occidentale. E nessuno punta più ad entrare nell'Eurozona. Se ne stanno alla larga. Ovviamente, sconfitto il socialismo, la disillusione prende anche forme poco belle.

C'è stato bisogno di provocare la Russia con un golpe nazista a Kiev per suscitare a freddo una crisi internazionale Est-Ovest e costringere l'Europa a rompere con Mosca: “Fuck the EU!”, come disse Victoria Nuland, plenipotenziaria obamiana per l'Europa. E Joe Biden sa la fatica che ha fatto per “convincere” gli alleati europei, sempre più recalcitranti e da rimettere in riga magari con qualche attentato jihadista (quando si ha in mano una buona arma si usa per tutto)!

Il grosso problema degli USA è che il richiamo economico non è più praticabile (e infatti Trump è passato alle minacce e ai ricatti commerciali anche nei confronti dell'Europa) e quello ideologico sperimenta le stesse difficoltà nonostante l'invasione letterale di prodotti ideologici americani, dalla musica ai film, dai telefilm ai media, per finire con la lingua, che da noi in Italia è ormai una sorta di Broccolino di Stato (“Jobs act” , “Spending review”, “Don't touch my Breil”).

4. Il rischio più grosso è allora quello di un'escalation della guerra mondiale a pezzetti, un'escalation che ha come immediato teatro l'Europa centrale e il Medioriente allargato.

Così, ciò che ha gettato veramente nel panico l'élite americana (e in special modo chi ci capisce) è la rivelazione da parte di Putin dell'esistenza di un'arma non nucleare, il missile Kinzhal, che fa voltare pagina al concetto di “proiezione di potenza” e di “difesa” (da questa proiezione). Infatti questo missile (che utilizza una tecnologia che alcuni osservatori militari considerano almeno 10 anni più avanti di quella disponibile negli USA) rende virtualmente tutta la flotta statunitense, i suoi incrociatori e le sue portaerei, una massa di ferraglia inutile dato che può essere colata a picco nel giro di minuti senza che ci possa fare niente. E questo, ripeto, senza bisogno di testate nucleari. Non solo, ma essendo a questo punto inutilizzabili anche le navi appoggio, anche i sottomarini statunitensi diventerebbero facili bersagli.

Di fatto con il Kinzhal la Russia può imporre nel Mediterraneo, nel Mar Nero, nel Pacifico, nel Mare Artico, delle  “no-go-zone” di migliaia di chilometri e può sigillare in pochi minuti il Golfo Persico mettendo in ginocchio l'Europa nello spazio di una settimana.

Le mega portaerei sono il simbolo massimo e spettacolare della capacità statunitense di proiettare potenza a migliaia di chilometri di distanza da casa. Infatti l'Unione Sovietica che aveva una dottrina militare essenzialmente difensiva (come d'altronde la Russia moderna) non costruì mai portaerei, ma solo un ibrido, l'Admiral Kuznetsov, e dopo discussioni infinite.

Ora l'enorme flotta statunitense è a questo punto usabile solo per fare la guerra a nazioni praticamente indifese. Dato che essa è costata centinaia di miliardi di dollari, il risultato è quello che da qualcuno è stato definito “una catastrofe dottrinale e fiscale”.

5. Perché Putin ha fatto queste rivelazioni il 1° marzo? È semplice: i Russi oramai hanno veramente paura di un first strike. Più precisamente hanno veramente paura di una nuova escalation da parte di Washington nei conflitti mondiali che potrebbe portare l'élite statunitense, sempre più disperata sul piano geopolitico, su quello finanziario e su quello economico, a decidere un first strike contro la Russia. Solo così si spiega il discorso, totalmente irrituale, di Putin, cioè di una persona che soppesa le parole col bilancino per almeno tre volte prima di pronunciarle.

Il sabotaggio degli accordi di Minsk e la preparazione di una nuova offensiva contro il Donbass per controbilanciare la perdita di terreno in Medioriente sono sotto gli occhi di tutti (per lo meno di tutti quelli che vogliono vedere). L'irritazione per la probabile perdita della Goutha, l'area vicina a Damasco finora tenuta da terroristi tagliagole (che lì gettavano gli omosessuali dalle torri ma sono considerati “moderati”) con l'aiuto di consiglieri Nato, di armi americane e di finanziamenti sauditi, si somma alla preoccupazione per il disastro nel Nord dove i Curdi sotto attacco della Turchia ad Afrin hanno permesso in alcune aree il ritorno dell'Esercito Arabo Siriano e dei suoi alleati, accolti in festa dalla popolazione.

È quindi ricominciato con la Ghouta tutto il cinema già visto ad Aleppo, con i “tagliagole buoni” che si difendono dai siriani e dai russi cattivi, con gli usuali interventi public relation dei soliti Elmetti Bianchi, di Amnesty, di Medici Senza Frontiere (sospettata da alcuni di essere proprio nella Goutha il paravento degli agenti Nato) e di cheerleader italiche come Assopace. Ovviamente, sia detto incidentalmente, le continue testimonianze dei religiosi che abitano nella zona non sono nemmeno prese in considerazione dai media mainstream. E, sia ancora detto incidentalmente, c'è veramente del perverso e dell'idiota a continuare a utilizzare fandonie (le armi chimiche) già utilizzate proprio per la Ghouta nel 2013 e sputtanate persino dal MIT di Boston.

La reazione statunitense a questa situazione è che il “deep state”, i neo-liberal-cons con in testa il Whashington Post puntano a una guerra aperta contro la Russia. Infatti ormai si dichiara che la famosa (e mitologica) “intrusione” russa nelle elezioni presidenziali è “un atto di guerra pari a Pearl Harbor (sic!) e al 9/11 (sic!)” e che quindi “bisogna rispondere come dopo Pearl Harbor (sic!) e come dopo il 9/11 (sic!)”.  Ovverosia, se la Storia e maestra,  bisogna rispondere con armi nucleari e con invasioni. Sfido chiunque a fornire un'interpretazione diversa.

Prima di andare avanti vi chiedo: ma questa vi sembra gente sensata o in preda a smanie insane?

Non contenti, esortano a proclamare nuove “linee rosse” in Siria da cui non recedere assolutamente e si parla con insistenza di bombardare Damasco. Cosa che farebbe quasi sicuramente scoppiare una guerra con la Russia. La famosa escalation della guerra mondiale a pezzetti di cui si parlava prima.

Putin e la Russia hanno paura di un'escalation simile. Contrariamente all'attitudine dei governanti statunitensi, Putin ha detto senza mezzi termini che lui e la Russia sono spaventati dall'idea di una guerra. Capibile i differenti punti di vista dato che l'URSS nella II Guerra Mondiale hanno avuto quasi 25 milioni di morti e gli Stati Uniti 400.000, visto che i primi sono stati invasi e i secondi no. La Storia ha insegnato due lezioni differenti alle due potenze.

I Russi non vogliono assolutamente una guerra. D'altra parte vedono che gli USA non sentono ragioni se non quelle delle armi da ben 17 anni, da quando Bush jr ha stracciato unilateralmente nel 2001 i trattati ABM sui missili balistici, da quando lui e i suoi successori hanno smentito la promessa di Reagan a Gorbachev di non incorporare nella Nato nessun ex membro del Patto di Varsavia, mentre oggi i missili e i carri armati Nato sono a 100 km da San Pietroburgo.

6. L'irrituale discorso di Putin è quindi un messaggio chiaro e urgente agli USA: non scalate i conflitti e ritorniamo al negoziato sul disarmo nucleare che voi avete interrotto da 17 anni e che sono 17 anni che vi chiediamo di riprendere, ma inutilmente. Anzi.

È stato osservato che usare parole sensate e gentili è inutile con gli USA che hanno nel DNA un solo tipo di risposta e di forma di dialogo: picchiare duro, picchiare, picchiare e picchiare. “Quando l'unica cosa che si ha in mano è un martello, ogni problema sembra un chiodo” disse nel 2001 un generale del Pentagono venuto a sapere della decisione di mettere a ferro e a fuoco tutto il Medioriente, come poi è stato. Lo disse un po' avvilito perché per fortuna negli USA non sono tutti pazzi.

È un atteggiamento abbastanza intrinseco all'élite statunitense.

L'Impero Britannico, al di là dei crimini commessi contro le popolazioni che dominava, ha portato in Europa cento anni sostanzialmente di pace (interrotti solo dalle nostre guerre d'indipendenza, dal breve conflitto franco-prussiano, e dalla periferica guerra di Crimea). Una cosa mai vista prima nel nostro continente, e nemmeno dopo.

L'Impero Statunitense ha condotto invece una guerra dietro l'altra: Corea, Vietnam, Cambogia, Laos, Panama, Golfo, Balcani, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Donbass. Guerre in tutto il mondo, e di nuovo dentro l'Europa.

E, detto tra parentesi ma in tema, mentre l'Impero Britannico fondava il Museo di Baghdad, l'Impero Americano lo devastava da cima a fondo.

Quello americano è dunque un impero di tipo nuovo, tra quelli moderni: è un impero guidato da una élite di selvaggi (uso una parola utilizzata da un accademico inglese, David Harvey, per descrivere le reazioni statunitensi alle sfide). Selvaggi che purtroppo sono convinti di avere dalla loro un compito divino, pensano di essere investiti da un “destino manifesto” che rende gli USA l'unica “nazione indispensabile” del nostro pianeta. Selvaggi e invasati. Invasati convinti che pur essendo solo un ventesimo scarso della popolazione mondiale hanno diritto di dominare su tutti.  È letteralmente impossibile ragionare in modo più insano e pericoloso.

7. La risposta di Washington al discorso di Putin è stata dunque: “No! Noi continueremo a scalare i conflitti. O per lo meno minacciamo seriamente di farlo. Non dovete credere di aver vinto o che avrete la vita facile. Vedete? Ci sbarazziamo anche di Tillerson che era troppo condiscendente sulla Siria, sull'Iran, sulla Corea e anche sulla Russia”.

Trump coi suoi dazi sta praticando una politica di falso isolazionismo ma in realtà di aggressione commerciale all'esterno: lo ha ammesso tranquillamente lui stesso che i dazi sono un ricatto all'Europa per poterla sommergere coi prodotti statunitensi più orrendi. Io mi aspetto ad esempio un pressing dei loro peggiori prodotti agricoli e di speculazioni sulle parti più pregiate del territorio europeo. Non è un caso che Mike Pompeo sia sfrenatamente a favore degli OGM e contrario a ogni precauzione ecologica. Se cediamo al ricatto – e probabilmente cederemo – vi voglio vedere con la bio-agricoltura, con il chilometro zero, con la difesa del paesaggio, della cultura e dei posti di lavoro!

America first e fuck the EU!

Ieri Trump lo ha ribadito: “America first! Costi quel che costi!”.

Fino a che punto tirerà la corda? Vuole andare a vedere se la Russia ha veramente le armi che dice? Beh, l'altro giorno c'è stato un nuovo test del missile Kinzhal, ed è stato un successo.

Fare proposte sensate agli USA con parole gentili non serve. Ormai è assodato. Farle con una grossa pistola attaccata al cinturone forse sortisce l'effetto sperato.

Se questo è l'unico linguaggio che sentono …
P.S. Ho amici di sinistra che sostengono che la Russia è un grande pericolo (forse perché vuole il disarmo nucleare?) e che i Paesi dell'ex Patto di Varsavia hanno fatto bene ad entrare nella Nato. No comment.

martedì 13 marzo 2018

Emergenza conti, senza nuovo governo stangata consumi

Fonte: WSI 13 marzo 2018, di Mariangela Tessa
Mentre tra Quirinale e segreterie dei partiti, l’Italia cerca affannosamente l’architettura del prossimo governo, il nuovo esecutivo sarà sarà subito chiamato a trovare oltre 30 miliardi di euro per neutralizzare le scadenze fissate dai governi precedenti, ovvero l’aumento dell’Iva e delle accise sui carburanti (12,47 miliardi per il 2019 e 19,16 miliardi nel 2020 per un totale di 31,6 miliardi nel biennio 2019/2020).
Nella legge Finanziaria del 2018 andranno dunque trovate le coperture necessarie, altrimenti – a partire dal 1 gennaio 2019 – l’aliquota intermedia dell’Iva salirà dal 10 al 12% mentre quella ordinaria passerà dal 22 al 24,2%. Nuova raffica di aumenti ad inizio 2020 con l’aliquota intermedia al 13% e quella ordinaria al 24,9%. A cui si aggiungerà l’ennesimo rincaro delle accise sui carburanti. Una vera e propria stangata sui consumi degli italiani che potrebbe mandare ko la fragile ripresa economica in corso.
Ieri a questo proposito l’associazioni dei commercianti, dei produttori e dei consumatori hanno lanciato l’allarme aumenti. Confesercenti ha condotto una simulazione dalla quale emerge che lo scatto dell’imposta farà perdere 23 miliardi di euro in tre anni, circa 885 euro a famiglia. Il Codacons calcola fino a mille euro all’anno per ogni nucleo famigliare.
Coldiretti sottolinea come gli aumenti colpirebbero i generi alimentari, come carne, pesce, yogurt, uova, riso, miele e zucchero “con effetti drammatici sui redditi delle famiglie più bisognose”.

lunedì 12 marzo 2018

Dazi Usa: Trump non risparmia Ue, rilancia con le auto

Fonte: WSI 12 marzo 2018, di Mariangela Tessa

Mentre è partito il conto alla rovescia sull’entrata in vigore, il prossimo 23 marzo, deli nuovi dazi decisi dal presidente Usa, Donald Trump, su e l’allumino, i fari di esperti e politici sono concentratati sulle conseguenze che le nuove tariffe avranno sull‘Unione Europea. Il timore è che queste tensioni portino a una guerra commerciale dalle conseguenze globali. Molti paesi potrebbero rispondere alla decisione degli Stati Uniti innescando una reazione a catena che rischia di compromettere la ripresa economica, soprattutto di quelle economie dipendenti dall’export.
Lo stesso Trump, durante il fine settimana non si è lasciata sfuggire l’occasione per ribadire su Twitter le condizioni per evitare una guerra commerciale:
“L’Unione Europea, fatta da paesi meravigliosi che nel commercio trattano gli Stati Uniti molto male, ora si lamenta delle tariffe su acciaio e alluminio. Se loro abolissero le loro orribili tariffe sui prodotti che gli Stati Uniti esportano là, noi faremmo lo stesso togliendo le nostre. C’è un grosso deficit. Altrimenti tassiamo le automobili. GIUSTO”.
Intanto, lo scorso il 9 marzo, dopo l’incontro con Robert Lighthizer, rappresentante per il Commercio estero degli Stati Uniti, Cecilia Malmström, commissaria al Commercio dell’Unione Europea,  ha scritto che
“non è stata fatta immediata chiarezza sulle procedure statunitensi previste per l’esenzione” dai dazi e che un nuovo incontro è previsto questa settimana a Parigi. Riferendosi agli Stati Uniti, Malmström ha aggiunto: “Siamo amici, siamo alleati. Contiamo di essere esclusi” dai dazi”.
A Bruxelles c’è preoccupazione e anche un po’ di irritazione per la sortita inattesa del presidente Usa Donald Trump di imporre un dazio del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio importato dall’estero, fatta eccezione per alcuni paesi come Messico e Canada. Trump ha lasciato la porta aperta all’esenzione dai dazi anche per l’Australia, offrendo agli altri paesi esportatori la possibilità di discutere “misure alternative” per limitare le minacce alla sicurezza nazionale che, secondo gli Usa, derivano dalle loro importazioni.
A questo proposito, sabato scorso, il segretario al Tesoro Usa, Steve Mnuchin, ha lasciato intendere in un’intervista alla rete televisiva Cnbc che una delle “misure alternative” potrebbe essere un aumento del contributo finanziario dei paesi destinatari dei dazi al bilancio della Nato

domenica 11 marzo 2018

Brexit: per rimediare a buco di bilancio, Ue studia tre nuove imposte

Fonte: WSI 9 marzo 2018, di Daniele Chicca
Per colmare il grosso buco di bilancio che si verrà a formare in seguito alla Brexit, ossia all’addio del Regno Unito dall’Unione Europea, le autorità di Bruxelles stanno studiando l’imposizione di non una ma tre nuove tasse.
Oltre alla web tax di cui si è già ampiamente parlato, allo scopo di recuperare i circa 10 miliardi di euro annui stimati di minore compartecipazione del Regno Unito al budget, il parlamento Ue sta pensando di introdurre anche un’imposta sulle transazioni finanziarie e una tassa di tipo “ambientale”, che secondo Italia Oggi sarebbe destinata a punire chi inquina maggiormente.
Su quest’ultimo punto in febbraio l’Ocse aveva esortato i governi a tassare con maggiore aggressività le energie inquinanti e in particolare le emissioni di CO2. Nel rapporto si avvertiva anche che i livelli di imposizione fiscale non sono sufficienti a combattere il cambiamento climatico in modo efficace.
Quanto alla tassa sulle transazioni finanziarie due sviluppi politici recenti hanno contribuito a fare tornare in auge la proposta di una FTT. In primis il voto sulla Brexit, dal momento che ha escluso dai giochi uno dei grandi partner contrari: il Regno Unito. In secondo luogo l’accordo per la formazione di una grande coalizione di governo in Germania stretto dalla Cancelliera Angela Merkel con i Social Democratici di Martin Schulz, favorevoli all’imposizione di questo tipo di tassa su base europea da quando è scoppiata l’ultima crisi.
Della web tax sui colossi internazionali dell’hi-tech (GAFAM) si sa che sarà compresa tra i 2 e il 6% del fatturato e non del profitto. L’ipotesi di una Direttiva comunitaria su tale frangente è originata da una lettera congiunta alla presidenza del G20 da parte dei ministri delle finanze di Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Italia, e della Commissione Europea che chiedono un’azione congiunta per la revisione delle norme fiscali per le società digitali.
“È urgentemente necessaria una risposta globale alle sfide fiscali sollevate dall’economia digitale. Le norme attuali portano a carenze fiscali in Paesi in cui le multinazionali conducono attività significative e generano profitti in gran parte basati sul contributo degli utenti di prodotti e servizi digitali, creando così distorsioni del mercato e minando la sostenibilità dell’imposta sulle società che governano il sistema”.
Le prime cinque imprese digitali per capitalizzazione (Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook, che vengono raggruppati sotto l’acronimo GAFAM) realizzano il 60% delle vendite e dei profitti fuori dagli Stati Uniti, lasciandovi solo il 10% delle tasse pagate. Stando ai calcoli effettuati in uno studio curato dalla Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, si stima che in Italia il mancato introito sia stimato in circa 5 miliardi di euro.
Con questi numeri alla mano, è facile capire come mai si stiano intensificando gli incontri da parte di vari ministri economici europei circa l’introduzione di una web tax che faccia da ulteriore leva “fiscale” per riequilibrare evidenti “distorsioni” di un settore, quello a “forte impatto tecnologico”, che avrà un ruolo sempre più determinate nell’economia ormai sempre più “digitale”. In prima linea ci sono Francia, Italia, Germania e Spagna, che possono contare anche sul sostegno di Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania.

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