Innegabilmente, la regola del “
mercato”
è l’unica alla quale sono oggi prioritariamente subordinati gli stati,
le istituzioni e, soprattutto, le organizzazioni economiche e le
cosiddette autorità amministrative indipendenti, così all’interno degli
stessi
stati del mondo occidentale come a livello
internazionale e sovranazionale. Non è meno vero, però, che proprio
l’assoggettamento a questa regola obnubila la realtà di un mondo di
produzione capitalistico che con le due decisive innovazioni, quali il
tanto decantato
processo di finanziarizzazione e la
sempre più pervasiva rivoluzione tecnico-scientifica, rischia di
marginalizzare e rendere sempre più dipendente il ruolo della
forza-lavoro, oltre che meno garantiti i diritti sociali e i servizi
pubblici.
L’insistenza, sia dei teorici sia di responsabili politici e tecnici delle
strategie neoliberiste,
nel legittimare il primato incondizionato di un mercato globale, come
pure le accuse degli economisti ai costituzionalisti e più in generale a
coloro che si propongono di difendere la
Costituzione
e, segnatamente, i principi e le norme che tutelano e promuovono
l’occupazione, i diritti e la salute dei lavoratori e dei cittadini, i
diritti sociali della vecchia e nuova generazione, non sono certo la
base più favorevole per un dialogo costruttivo.
Non vorrei, perciò, che qualcuno s’offendesse se dichiaro, sine spe nec metu, il mio “
patriottismo costituzionale”, cioè di essere fedele, per dirla con
J. Habermas,
al principio politico post-nazionale in grado di favorire il
riconoscersi non solo dei cittadini, ma di tutti coloro che vivono ed
operano in un determinato paese, in principi e prassi politiche di
solidarietà, partecipazione politica ed autodeterminazione, considerato
in Italia, ma per vero anche in
Germania, una forma di
patetico ancoraggio a un passato anacronistico e irripetibile, fatto
di inefficienze politiche e amministrative, che implicherebbero sprechi
economici incompatibili con il rigore del patto di stabilità, il
principio cardinale dell’
eurozona.
Lungi da me, infatti, la volontà di
demonizzare i fautori della riforma costituzionale radicale sottoposta a referendum confermativo: se, come stigmatizzò
Tito Castricio, il cui pensiero ci fu tramandato da
Aulo Gellio
(Noctes Acticae, 1, 5-6), “al retore è permesso usare argomenti falsi,
audaci, inventati, subdoli, capziosi, purché verosimili e idonei, con
una qualche astuzia, a influenzare gli animi degli uomini da commuovere”
e se, “per un retore, è turpe lasciare qualcosa trascurata ed indifesa
in una cattiva causa”, non altrettanto, ritengo, sia consentito al
giurista, ancor che cittadino (molecola di quel “popolo” al quale, nel
nostro ordinamento “appartiene” la sovranità), tenuto piuttosto, per
essere credibile, a parlare con
sobrietà e pacatezza,
ma soprattutto obiettività, dicendo ciò che sembra vero a sé e a tutti,
specie se la riflessione investe la Costituzione, tanto quella vigente
quanto quella a venire, sempre naturalmente che la riforma superi il
vaglio referendario a cui è sottoposta.
Com’è ovvio, un simile discorso, per non risolversi in una lutulenta e stucchevole serie di
enunciati propagandistici,
non può esaurirsi nell’esile spazio di un post, dovendosi toccare
diversi punti, primo fra tutti quello del contesto che ha indotto i
cittadini a disertare in modo sempre più massiccio le urne. Fenomeno,
questo, che dovrebbe far riflettere sia gli addetti ai lavori sia i non
pochi costituzionalisti di
nuova generazione, assetati
di novità. In ogni caso, ripromettendomi di tornare con ulteriori e
più articolati interventi sulla questione costituzionale, vorrei
preliminarmente ricordare a coloro che hanno inteso riscrivere
principi e norme le quali pur regolando la forma di stato e di governo rischiano, comunque, di accentuare
personalizzazione e populismo latenti nel nostro Paese, che non è nuova l’idea di attribuire a una costituzione, garante dei
diritti politici, economici e sociali
dei cittadini e lavoratori, la responsabilità prevalente o,
addirittura, esclusiva di gravi crisi politico-istituzionali ed
economico-sociali.
L’esperienza costituzionale tedesca, come ebbe a sottolineare
Costantino Mortati
(Introduzione alla Costituzione di Weimar, Testi e documenti
costituzionale, Collana promossa dal Ministero per la Costituente,
Firenze, 1946, vol. XIV, p. 343), “offre grande interesse, non
esclusivamente teorico ma anche pratico perché essa è influenzata non
solo da fattori specifici bensì da cause che rivestono una portata
generale essendo espressione di quella fase di transizione fra forme di
civilizzazione diverse nelle quali si svolge il
travaglio costituzionale
della nostra epoca”. Fu, tuttavia, l’idea che la responsabilità di una
situazione politica concreta di grave crisi di una repubblica senza
repubblicani, potesse essere attribuita all’ordinamento giuridico,
scambiando le pecche della politica con quelle dell’ordinamento
costituzionale, a produrre, nella
Repubblica di Weimar, conseguenze catastrofiche per la democrazia e per la pace tra popoli e nazioni.
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la condivido in toto quest'analisi..... la trovo profetica