Il
“made in” viene attribuito in base al luogo nel quale viene effettuata
l’ultima trasformazione sostanziale. Quindi, se comprate un salame
Made in Italy, non vuol dire che la filiera è italiana, ovvero che gli
animali sono stati allevati in Italia secondo le regole di qualità ed
igiene italiane, ma che in Italia si è svolta solo l’ultima
trasformazione sostanziale dell’ingrediente usato per fare il salame.
Un
maiale, ad esempio, può essere allevato, nutrito e trattato in
Germania, in Austria, in Cina o chissà dove, secondo le regole in
materia di igiene e qualità vigenti in quel Paese, ma la sua carne può
essere venduta come Made in Italy; è sufficiente, appunto, che l’ultima
trasformazione sia avvenuta in Italia.
Il
nuovo Regolamento che la Commissione europea ha pubblicato sul proprio
sito, dove rimarrà a disposizione per la consultazione pubblica anche
se solo in lingua inglese fino al primo febbraio, data in cui entrerà
in vigore, punta finalmente a regolare i prodotti confezionati in un
determinato Paese ma con materia prima straniera e, nei casi in cui la
confezione potrebbe trarre in inganno i consumatori, indica che
l’origine va dichiarata sull’etichetta.
Il
problema, dunque, in prima battuta sembra essere risolto. Vediamo
invece, innanzitutto, che il medesimo regolamento (1169 del 2011)
sarebbe dovuto essere stato approvato entro il 2014 ed ha quindi
regalato quattro anni di business all’industria dell’anonimato.
Poi,
come riporta “Libero”, notiamo anche che la Commissione ha escluso
dall’obbligo di dichiarare l’origine le denominazioni generiche (pasta,
prosciutto, formaggio, mortadella, latte a lunga conservazione,
mozzarella, olio e via dicendo) e pure i marchi.
È
infatti sufficiente che nel logo del produttore vi sia, ad esempio, un
nastro o una coccarda tricolore e l’obbligo di dichiarare da dove
provenga l’ingrediente primario decade.
Il caso
più emblematico è quello della Pasta Miracoli; prodotta in Germania ed
etichettata con una enorme profusione di tricolori, non ha l’obbligo di
dichiarare la provenienza.
Ancora, l’obbligo non
vale neanche per le Igp (Indicazioni geografiche protette), così i
produttori potranno continuare ad importare la materia prima che
impiegano senza dover scrivere nulla a riguardo.
Il
produttore dovrà dichiarare da dove provenga la materia prima
dell’ingrediente primario soltanto qualora dovesse indicare chiaramente
“Made in Italy” sulla confezione. In questo caso, però, potrà
cavarsela con un generico “Paesi Ue” piuttosto che “Paesi non Ue” o
ancora “Paesi Ue e non Ue”, a seconda della provenienza.
come fa notare Dario Dongo, uno dei massimi esperti di diritto alimentare:
“Una dichiarazione che equivale a scrivere “Pianeta Terra”.”
Siamo
davanti ad un altro schiaffo da parte dell’Unione europea nei
confronti dell’Italia; il Made in Italy, che KPMG censisce come terzo
marchio al momndo per notorietà dopo Coca-Cola e Visa, sta subendo uno
smantellamento epocale per mezzo delle normative europee che, così
facendo, favoriscono addirittura i mercati non comunitari ed i
taroccatori.
Sa infine di presa in giro anche la
consultazione pubblica cui la Commissione europea ha sottoposto il
provvedimento tramite il proprio sito web: il testo è esclusivamente in
inglese e non vi è stata nessuna informazione di pubblicazione;
inoltre, non solo non vi è traccia nelle comunicazioni ufficiali di
Bruxelles sull’apertura della consultazione, ma il documento è quasi
introvabile sul sito web della Commissione, nascosto nelle pagine di
una delle tante direzioni generali.
Un’informazione,
insomma, più utile ai fini delle grandi imprese e delle associazioni
di categoria strutturate a livello europeo, più che per i cittadini.
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