Fonte: Il Fatto Quotidiano di Elisabetta Ambrosi | 7 dicembre 2018
Italiani
sempre più cattivi. Frustrati dallo sfiorire della ripresa e da un
cambiamento che non è arrivato, hanno deciso di compiere “un salto
rischioso e dall’esito incerto”, un “funambolico camminare sul ciglio
di un fossato che mai prima d’ora si era visto così da vicino”. Così
vede l’Italia e i suoi cittadini l’Istituto Censis, che oggi a Roma ha presentato il 52esimo
rapporto sulla situazione sociale del paese. Alludendo alla situazione
politica, l’Istituto presieduto da Giuseppe De Rita ha parlato della
decisione di “forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la
continuità nella gestione delle finanze pubbliche”. Una ricerca
programmatica del “trauma”, dice il Censis, definibile come una sorta di
“sovranismo psichico”, ancor prima che politico, che produce una relativa caccia paranoica al capro espiatorio.
Lo dicono i dati: il 69,7% degli italiani non vorrebbe vicini di casa rom e il 52%
è convinto che si faccia più per gli immigrati che per gli italiani. Un
“cattivismo” diffuso, lo definisce ancora il Censis, che porta gli
italiani a temere non solo l’immigrazione da paesi extra Ue (63%) ma
anche da paesi comunitari (45% contro il 29%
medio). Non troppo paradossalmente, i più ostili verso gli immigrati
sono gli italiani più fragili, anziani e disoccupati, mentre il dato
scende al 23% tra gli imprenditori. In generale, per il 75% degli italiani l’immigrazione aumenta la criminalità e solo il 37% ritiene che abbiano un impatto positivo sull’economia.
Convinti di non poter migliorare e pessimisti
Le
ragioni di questo salto risiedono, come spesso sottolineato
dall’Istituto di ricerca nei precedenti rapporti, nella paura delle
classi a basso reddito di restare nella condizione attuale, senza
nessun possibile miglioramento: lo credono il 96% delle persone con basso titolo di studio e l’89%
di quelle a basso reddito. L’Italia è ormai il Paese dell’Unione
europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver
raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei
genitori: il 23%, contro una media Ue del 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania. Il 63,6% degli italiani è convinto che nessuno ne difenda interessi e identità, e che tocchi a loro stessi pensarci (e la quota sale al 72%
tra chi possiede un basso titolo di studio e al 71,3% tra chi può
contare solo su redditi bassi). Rispetto al futuro, solo il 33,1% degli
italiani è ottimista.
Su le esportazioni in Europa, giù l’europeismo
Mentre
gli investimenti e consumi sono più bassi del 2010, sale invece
l’export del 26,2% (+7,4% rispetto al 2016), con un saldo commerciale
positivo di 47,5 miliardi, un dato che posiziona l’Italia al nono posto
tra i paesi esportatori, con 217.431 aziende esportatrici, per lo più
in Europa. Nonostante questo, e nonostante l’Italia sia il quinto paese
per finanziamenti ricevuti dalla UE e il quarto per numero di progetti
finanziati, solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza alla Ue abbia giovato all’Italia, un dato molto basso rispetto alla media europea del 68%.
Più europeisti sono i giovani, peccato che il loro numero sia
diminuito ovunque in Europa, e soprattutto in Italia, il paese con la
più bassa percentuale di giovani (20,8% tra i 15 e i 34 anni).
Italiani, astenuti convinti
Venendo alla politica, il Censis evidenzia come il primo partito italiano sia quello del non voto. 13,7 milioni
sono infatti gli astenuti o i votanti scheda bianca alla Camera nelle
ultime elezioni, una percentuale che ha toccato nel 2018 il 29,4% contro
l’11,3% del 1968. La metà degli italiani, con poche differenze tra chi
ha un reddito basso e chi più alto, ritiene che i politici siano tutti uguali.
Gli italiani sono invece divisi rispetto all’uso dei social network in
politica tra chi li ritiene dannosi e chi utili o preziosi.
Lavoro giovanile, un dramma senza fine
Un
dato problematico riguarda senz’altro il lavoro: il Censis segnala
come il salario medio annuo sia aumentato tra il 2000 e il 2017 solo
dell’1,4%, 400 euro all’anno (+13,6%
in Germania e 20,4% in Francia). Non solo: dal 2000 al 2017 sono scesi
di oltre un milione e mezzo gli occupati giovani (27,3%), mentre sono
aumentati gli occupati “anziani” (55-64). In dieci anni siamo passati
da un rapporto di 236 giovani occupati ogni 100 anziani a 99, mentre nel segmento più istruito i 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani del 2007 sono diventati appena 143. Sono raddoppiati i giovani sottoccupati e aumentati esponenzialmente quelli costretti a un part time forzato: ben 650.000 nel 2017 contro i 150.000 del 2011.
La disoccupazione giovanile è fortemente legate al tema della formazione. L’Italia investe in istruzione e formazione il 3,9% del Pil contro una media europea del 4,7%. I laureati sono il 26,9%
contro una media Ue che ha toccato il 39.9%, mentre gli abbandoni
scolastici riguardano il 14% contro una media Ue del 10,6%. 11.257 sono
gli euro spesi per studente contro i 15.998 della media Ue. Scende
pure la spesa pubblica destinata alla ricerca, dai 10 miliardi del 2008
agli 8,5 del 2017.
La corsa della disintermediazione digitale
Mentre i consumi delle famiglie sono ancora appesi al palo – meno 6,3%
rispetto a quello del 2018 – e la forbice tra i gruppi sociali continua
ad allargarsi – meno 1,8% della spesa per consumi delle famiglie
operaie, +6,6% quella degli imprenditori – corre
invece la spesa per i telefoni (+221,6%) e aumenta in maniera
esponenziale l’utilizzo di dispositivi digitali e del web, a cui si
connette oggi il 78,5% degli italiani, quasi sempre tramite smartphone e
quasi sempre sui social network. Per il Censis non si tratta di un
fenomeno necessariamente positivo.
Nell’era
biomediatica – si legge – in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O
nessuno, in realtà, lo è più”. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%)
ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente
“fondamentale” per poter essere una celebrità, come se si trattasse di
talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani).
Precari anche i sentimenti
Come
sempre, anche in questo rapporto il Censis focalizza la sua attenzione
sulle relazioni affettive. La tendenza è la stessa degli anni
precedenti: ci si sposa sempre di meno e ci si lascia sempre di più.
Crollano i matrimoni religiosi (-33,6% dal 2006 fino al 2016),
aumentano le separazioni (+14% dal 2006 fino al 2016). Boom della “singletudine”: i single sono più di 5 milioni.
La politica non ignori il cambiamento sociale
Tracciare un bilancio generale è difficile. Di sicuro, si legge nelle Considerazioni generali
al Rapporto, “la ripartenza poi non c’è stata: è sopraggiunto un
disallineamento, un inciampo, un rabbuiarsi dell’orizzonte di ottimismo e
di rinvigorimento dei comportamenti individuali e collettivi e della
loro vitalità economica”. Il problema è che “ogni spazio lasciato vuoto
dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede
riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il
proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi”. Da un lato
prevale l’individualismo: “Andiamo”, scrive il Censis, “da
un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali,
verso un appiattimento della società”. Dall’altro, non senza
contraddizione, il popolo, attraversato da tensione, paura, rancore,
guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, “ricostituendosi
nell’idea di una nazione sovrana e supponendo, con un’interpretazione
arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della
diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale”. Ma
la politica, conclude il Censis, vince proprio se
resiste alla tentazione di appiattimento, e propone una prospettiva di
futuro dando all’annuncio un seguito. Di sicuro l’errore più grande
della politica italiana degli ultimi dieci anni è stato quello di
ignorare il cambiamento sociale. Anche oggi, dunque, “c’è sempre più
bisogno di una responsabilità politica che non abbia paura della
complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di
paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso
ecosistema di attori e processi”.
di Elisabetta Ambrosi | 7 dicembre 2018
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