Fonte: Il Fatto Quotidiano Società - 15 Marzo 2020 Loretta Napoleoni
Ormai esiste solo una notizia e si chiama coronavirus.
Come nei film di fantascienza il mondo occidentale si sgretola,
crollano tutte le certezze dell’era del benessere infinito, della salita
inarrestabile degli indici, delle vacanze perenni, delle navi da
crociera-grattacieli e del consumo vorace di tutto, dai social media alle series di Netflix, dal cibo gourmet ai selfie davanti alle opere d’arte.
E’ bastato un microscopico virus a porre fine alla baldoria del secolo. Solo negli Stati Uniti
si continua a ballare sul Titanic che affonda. Qui nella terra
dell’impero trumpista ancora si pensa di essere nel 2019, quando
all’orizzonte c’era il simbolo del dollaro più luminoso anche del sole.
Ma presto anche questa spensieratezza svanirà.
Forse è arrivato
il momento di fare una riflessione esistenziale, ed è bene che la
facciano per primi gli italiani, chiusi in casa come animali feriti
nella loro tana. Non siamo noi i primi in questa era di infinite possibilità ad assistere alla distruzione delle certezze ad essere travolti da un nemico micidiale.
Prima di noi è successo agli afghani, ai siriani, a chi ha avuto la sfortuna di nascere in Somalia, nell’Africa occidentale e in quella orientale, a chi è stato rapito dai jihadisti,
dai trafficanti di droga dell’America centrale, a tutti coloro che
hanno bussato incessantemente alla nostra porta e che abbiamo trattato
come una notizia. Se è vero che oggi, davanti al coronavirus, tutti sono
italiani, è anche vero che ieri tutti dovevano essere profughi, immigrati illegali e migranti economici.
La pandemia è il prodotto della globalizzazione, su questo nessuno può muovere alcuna obiezione. Il virus si muove con una rapidità agghiacciante
perché noi tutti ci muoviamo incessantemente e lo portiamo con noi. E’
uno stile di vita che il pianeta non ha mai avuto e questo è il momento
per capire che è innaturale.
Poiché viviamo nel villaggio
globale la pandemia ha colto i nuclei familiari in posti diversi
impedendo loro di ricongiungersi. Figli, genitori, nonni chiusi in casa
in città ormai scollegate, in nazioni senza più contatti. Quando li rivedremo? E li rivedremo?
Ma anche i profughi siriani, gli immigrati illegali, i migranti
economici sono vittime della globalizzazione. Il crollo del muro di
Berlino e la fine della guerra fredda hanno lasciato immense regioni del
mondo in balia dei signori della guerra, dei
jihadisti, dei trafficanti di droga, ha fatto piombare nazioni come la
Somalia nell’anarchia perenne. Chi viveva in queste regioni è diventato
vittima di un virus molto più micidiale, che dopo trent’anni continua a
mietere vittime. Anche costoro sono lontani dai loro cari, spesso non
sanno neppure dove siano o se sono ancora vivi.
Non è così che
l’homo sapiens ha conquistato il pianeta. Lo ha fatto potenziando la
famiglia estesa, il gruppo, la tribù, la specie.
Poco tempo fa ho riletto il Dottor Zivago,
in quel libro c’è la descrizione magistrale del lungo viaggio in treno
nella Russia congelata della famiglia di Zivago verso un luogo caro e
amato, dove nascondersi e attendere che il peggio passi. Allora si
scappava dai Bolscevichi e dal tifo che decimava la
popolazione. Le epidemie politiche e sanitarie ci sono sempre state e
sono sempre state vinte dalla coesione, dalla generosità,
dall’altruismo. Anche quelle che stiamo vivendo possono essere vinte
con gli stessi strumenti.
Quando si riapriranno le nostre porte e
torneremo a vivere una vita normale non dimentichiamoci di chi questo
non lo può fare. Debellare il coronavirus per riprendere la corsa pazza
verso il benessere individuale, per celebrare l’ascesa degli indici di
borsa, per riabbracciare con entusiasmo l’economia canaglia getterà le
basi di un’altra epidemia, e la prossima volta non è detto che non sia l’ultima.
Che
la riflessione esistenziale di noi italiani, 60 milioni di persone in
prima fila nelle trincee della pandemia, ci porti a salvare il pianeta
dall’estinzione dei ghiacciai, che fermi
l’impazzimento del clima, che porti la pace, la stabilità e la speranza
nelle regioni destabilizzate, che ci faccia tornare ad essere ciò che
siamo stati all’inizio della conquista del mondo, un specie cosciente,
intelligente, sensibile, superiore, una specie che sa gestire la tremenda responsabilità di guidare questo meraviglioso pianeta.
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