Fonte: Loretta Napoleoni sul Fatto Quotidiano del 30/11/2014
Nel
caos geopolitico in cui ci troviamo, nel labirinto della vita virtuale
in cui diventa sempre più difficile distinguere la realtà dalla
finzione e di fronte a fenomeni inquietanti come gli scontri di piazza razziali negli Stati Uniti e l’ascesa in Medio Oriente dello Stato islamico, meglio noto come Isis, si alza la voce di Papa Francesco, che come un faro che cerca di squarciare le tenebre esistenziali in cui siamo piombati.
C’è ben poco da stare allegri: sullo sfondo della deflazione e di fronte all’ascesa della disoccupazione, non solo in Italia, ma a giudicare dai fatti di Ferguson, anche oltreoceano, si profila lo spettro del razzismo.
L’Isis lo pratica quale strategia primaria per rendere la società il
più omogenea possibile, una tattica che facilita la raccolta del
consenso all’interno del territorio da questo controllato, il Califfato.
La pulizia etnica e religiosa viene amministrata con atti barbari e
disumani che a noi europei fanno tornare in mente le atrocità commesse
dai Nazisti e dai Fascisti appena un secolo fa. L’accanimento contro il
diverso, chi non è come noi, è naturalmente un segno di debolezza,
tutte le gradi civiltà al loro apice erano multietniche e lo scambio
di idee tra popoli diversi, tra culture diverse, tra religioni, usi e
costumi diversi, arricchiva la popolazione. Da Babilonia a Roma fino al
Califfato del Nono e Decimo secolo questo è il modello.
La debolezza dello Stato islamico è nota, un’organizzazione armata che vuole strutturarsi come Stato attraverso una guerra di conquista
classica, condotta quasi porta a porta, in trincea. Un processo che dal
2011 viene attuato usando tecniche terroristiche, barbare per
terrorizzare i nemici, tra cui anche noi occidentali, ed ingigantire
l’immagine di potere dell’Isis. Una strategia che allo stesso tempo
presenta agli abitanti abilitati a far parte del nuovo Stato – sunniti
salafisti radicali – vantaggi mai avuti in passato sotto la gestione
statale di regimi sciiti ostili, quello di Damasco e di Baghdad. La
debolezza di questa costruzione sta nell’assenza di un processo di
costruzione dello Stato basato sulla volontà ed il consenso della popolazione di unirsi,
farsi Stato e condividere la cosa pubblica. Al suo posto, infatti,
troviamo una guerra di conquista, da qui l’assenza del riconoscimento da
parte della comunità internazionale che invece ha deciso di
combattere con una nuova guerra per procura il nuovo nemico che pratica pulizia etnica e giustizia barbaramente gli ostaggi occidentali.
La
debolezza dell’Occidente è un’altra ed è tutta economica. La lunga
onda recessiva si è trasformata in una marea deflazionista che minaccia
il cardine primario della società occidentale: la crescita. Sullo sfondo dell’impoverimento della classe media e dell’assenza di mobilità sociale,
quel 99 per cento di poveri e potenziali poveri hanno iniziato a
lottare tra di loro. In questa guerra tra mendicanti c’è anche lo Stato,
anch’esso affetto dal morbo della povertà, uno Stato che non riesce a sedare la rivolta dei poveri e che invece finisce per farne parte. La
decisione delle istituzioni americane di non punire il poliziotto
bianco che a Ferguson la scorsa estate ha ucciso l’adolescente nero che
armeggiava una pistola giocattolo e di non concedere l’appello a questa
sentenza ne è la riprova. Si vuole evitare il dibattito sui perché
di questa azione, la paura del poliziotto in pattuglia in una zona
principalmente popolata da neri; le tensioni razziali ancora fortissime
nel sud degli Stati Uniti; l’aumento della criminalità spicciola quale
reazione alle difficoltà economiche e così via.
In Europa Cameron chiede di trattare gli immigrati come cittadini di secondo grado,
di ‘istituzionalizzare’ lo sfruttamento di costoro, e molti in Europa
gli daranno ragione. A 25 anni dal crollo del muro di Berlino viene
spontaneo chiedersi perché è stato abbattuto se il trattamento
dell’europeo doc sarà diverso da quello di tutti gli altri, forse i
motivi sono legati alla necessità del capitalismo occidentale
di trovare nuovi mercati da colonizzare, ragioni che non hanno nulla a
che vedere con la diffusione della libertà politica e l’uguaglianza tra
i popoli.
Le parole del Papa sono preziose perché ci ricordano
che gli uomini sono tutti uguali, questo è il primo sacrosanto diritto
umano. Sono parole coraggiosissime, pronunciate in Turchia, un Paese a
stragrande maggioranza musulmano, e che incitano all’apertura non alla
chiusura attuale nei confronti dell’Islam, che
suggeriscono la necessità di fare uno sforzo per intavolare un dialogo
informale, rozzo, con chi è vicino allo Stato islamico, per capire e
trovare una soluzione non bellica, ma pacifica a quanto sta accedendo
in questa parte del mondo.
Discorso analogo vale per la guerra
tra i poveri, lo Stato deve avere il coraggio di Francesco per fermarla
redistribuendo la ricchezza a favore di quel 99 per cento. La parola ‘nazionalizzazione’ dovrebbe essere rispolverata dal vocabolario della politica e pronunciata pubblicamente.
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