mercoledì 12 luglio 2017

Guerra al Fiscal Compact, Renzi isolato pure da Padoan (Stefano Feltri)

 

Nessuno prende sul serio l’idea del deficit al 2,9%.

In un tempo non lontano qualunque slogan Matteo Renzi lanciasse veniva preso sul serio. Almeno per un giorno. Questa volta non è andata così: tra le anticipazioni del libro dell’ex premier, Avanti, che il Pd sta centellinando sui giornali c’era la grande rivoluzione di politica economica: ignorare il trattato del Fiscal Compact e applicare all’Italia soltanto i vincoli del Patto di stabilità del 1992, con il tetto al 3 per cento per il rapporto tra deficit e Pil. Per almeno cinque anni, così da trovare a debito le risorse per spingere la crescita economia. “Avremo 30 miliardi l’anno per ridurre le tasse e finanziare la crescita”. Questa, per Renzi, è la “base della proposta politica del Pd alle prossime elezioni”.
Le solite indiscrezioni che la Commissione europea lascia filtrare alle agenzie in questi casi lasciano poco spazio alle ambiguità: “È fuori dalle regole: no ad azioni unilaterali”. Ancora più definitive le parole ufficiali di un portavoce del presidente della Commissione, Jean Claude Juncker: “Il presidente ha un rapporto molto buono con il primo ministro italiano Paolo Gentiloni e i nostri commissari hanno rapporti ugualmente buoni con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan”. E non stupisce, visto che il ministro Padoan – che finora ha sempre coperto le intemperanze contabili di Renzi ma a desso pensa al proprio futuro, forse con un incarico europeo – liquida così il dibattito: “Mi sembra siano temi per la prossima legislatura”. Lui non se ne vuole occupare.
Proprio Padoan, infatti, ha impostato il dialogo (e lo scontro) con Bruxelles su altre basi: dimostrare tutto l’impegno possibile a rispettare gli impegni presi – su riduzione del debito e contenimento della spesa – per poi ottenere concessioni all’ultimo secondo. A inizio giugno ha scritto a Bruxelles di voler rivedere gli impegni presi nel Def, il Documento di economia e finanza di aprile, e di impegnare l’Italia a una correzione strutturale (cioè considerati gli effetti del ciclo economico) soltanto dello 0,3 per cento del Pil nel 2018, invece che lo 0,8 promesso. La risposta è stata – per quanto ancora informale – positiva. La Commissione ormai ha trovato il suo (discutibile e discusso) stile: difendere i vincoli di bilancio come intoccabili ma poi accordare molte eccezioni su base discrezionale e politica. Il confronto diretto e sui principi di fondo non paga.
E questo lo sa pure Renzi. In una sua lontana intervista al Fatto, il 2 gennaio del 2014, poco prima di andare a palazzo Chigi diceva: “Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali (…) allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento”.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 11/07/2017.

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