L’acuirsi della crisi irachena, che ormai sembra scivolare nella guerra civile, come l’avanzata verso Baghdad di un gruppo terrorista del fondamentalismo islamico, Islamic State of Iraq and the Levant (ISIS), non hanno avuto un grande impatto sui mercati. Il brent, ad esempio, è salito di appena 5 dollari. Sembra strano dal momento che l‘Iraq è il secondo maggior produttore di petrolio con una produzione di circa 3,3 milioni di barili al giorno.
E’ questo un comportamento completamente diverso da quello tenuto dai mercati nel 2003, quando l’entrata in scena di Abu Musab al Zarqawi
e dei suoi seguaci fu caratterizzata dal primo attacco suicida sunnita
contro gli sciiti, quello alla moschea Imam Ali. Bastò questo a far
impennare il prezzo del petrolio e delle materie prime.
La calma che oggi regna nelle piazze affari del villaggio globale
è legata ad una serie di fattori contingenti che dieci anni fa non
esistevano, ma è anche prodotta da un certo fatalismo nei confronti
dell’ennesima crisi irachena.
Innanzitutto il ruolo che gli Stati Uniti
oggi ricoprono nell’industria petrolifera, grazie al fracking, è ben
diverso da quello che avevano dieci anni fa. Ironicamente fu proprio
l’impennata del prezzo del petrolio creata dalla guerra in Iraq a
rendere possibile l’applicazione di queste nuove tecnologie, considerate
prima troppo costose. I prezzi al di sopra dei 60 dollari al barile
hanno fatto si che Washington diventasse un esportatore di energia.
La
transizione statunitense da importatore ad esportatore ha poi ridotto
la pressione sull’Arabia Saudita che oggi ha un ampio margine di
capacità inutilizzata, in altre parole se necessario può compensare
l’interruzione di produzione irachena. In ogni caso l’attuale avanzata
dell’ISIS non ha ridotto la produzione e questo perché sono stati
sabotati gli oleodotti che collegano Kirkuk al porto turco di Ceyhan,
quindi l’impatto della riduzione si è sentito allora e non adesso. E’
anche vero che i principali pozzi si trovano a sud del paese dove
l’insurrezione islamica non è ancora arrivata.
Naturalmente se il
governo iracheno non riesce a sedare la rivolta islamica questa
potrebbe estendersi a sud del paese. Nell’eventualità che venisse a
mancare tutta la produzione irachena, che oggi oscilla tra i 2,5 ed i
2,7 milioni di barili al giorno, l’Agenzia internazionale per l’energia può ricorrere alle sue riserve strategiche alla quali si potrebbe aggiungere l’aumento della produzione saudita.
Molti
analisti sono certi che queste misure non basteranno e di repente il
prezzo dell’oro nero salirà di 40 50 dollari al barile. Il motivo è
semplice, per raggiungere il sud dell’Iraq l’ISIS deve conquistare
Baghdad, un evento catastrofico su tutti i punti di vista, incluso
quello dell’esportazione del petrolio che cadrebbe in mano ad un gruppo
de facto terrorista.
Se a questo scenario aggiungiamo i problemi in Libia, dove a causa delle lotte fratricide tra le tribù l’esportazione di petrolio si è paralizzata; quelli in Nigeria,
dove il saccheggio da parte di bande e gruppi armati lungo gli
oleodotti ha ridotto drasticamente l’esportazione e la crisi in Ucraina, che rischia di estendersi al Caucaso, è chiaro che in autunno potremmo avere seri problemi energetici.
Per
ora però questi scenari sono considerati estremi grazie al fatalismo
che serpeggia nei mercati: in un modo o nell’altro la spunteremo di
nuovo, magari anche grazie all’apertura diplomatica nei confronti
dell’Iraq, questo il mantra più popolare.
dal Fatto Quotidiano a firma di Loretta Napoleoni | 22 giugno 2014
p.s.
aggiungo
io qualcosina... il fracking che ora tiene fermi i mercati è di breve
respiro perchè, e le aziende del settore lo sanno, le estrazioni danno
risultati per i prossimi dieci anni al massimo (e a un certo prezzo del
petrolio perchè se dovesse scendere, oltre al panico, diventerebbe
immediatamente antieconomico quindi sarebeb abbandonato!), poi ci
risiamo ..... ma il mercato funziona così, è di breve respiro e non
ragiona nel medio e lungo periodo quindi dorme sonni tranquilli.
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