di Loretta Napoleoni | 17 settembre 2017 Il Fatto Quotidiano
Kim Jong Un ha lanciato un altro missile che ha sorvolato il territorio del l’arci-nemico nord coreano, il Giappone. Ha aspettato che l’uragano Irma lasciasse gli Stati Uniti
per ottenere il massimo impatto sull’opinione pubblica americana, da
sempre traumatizzata dal nemico esterno. Potere della politica della
paura occidentale che oggi ci si ritorce contro. Ma l’impatto mediatico questa volta è stato minore delle aspettative. Venerdì mattina il presidente degli Stati Uniti si è svegliato per i consueti tweet dell’alba e ha avuto un momento di esitazione: twittare sulla bomba a Londra o sul missile nord coreano? Come gestire due crisi del genere in 140 caratteri? Non deve essere stato un momento facile per Trump.
Ridurre la diplomazia a slogan lapidari
non è possibile, anche se ormai ci provano tutti, ma in una settimana
come quella che si chiude oggi, viene spontaneo chiedersi se esiste ancora la diplomazia. E’ una domanda che vale la pena porsi anche perché nel caos mediatico che ci circonda
sta diventato sempre più importante capire se ancora questo strumento
fondamentale della politica estera ancora esiste ed utilizzarlo per calmare gli animi.
In Europa, sempre durante questa settimana, abbiamo assistito alle minacce di Jean Claude Junker lanciate al parlamento inglese per aver votato la Brexit. Gli inglesi si pentiranno di aver abbandonato l’Europa, questa la sintesi del suo discorso. E subito la Nuova Europa, così definita dall’altro Donald, il famigerato Rumsfeld, ha esultato. Naturalmente la risposta britannica è stata simile, i tabloid si sono lanciati nella solita filippica contro Bruxelles,
ma anche la stampa di qualità ha storto il naso. Quando si attacca la
sovranità nazionale britannica c’è da aspettarsi anche di peggio.
Sembra che a tutti prudano le mani e usino gli insulti verbali per grattarsele. Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, mai la diplomazia ha avuto un ruolo e un peso minori, mai come oggi ci siamo trovati di fronte a una classe politica mondiale che sembra uscita da un asilo mal gestito, dove il bullismo imperversa.
Ci dobbiamo preoccupare? Sicuramente i focolai di conflitto sono molti, ma la storia ci insegna che le guerre, per quanto stupide siano, non scoppiano mai per motivi personali ma per ragioni economiche.
La Corea del Nord dà fastidio agli americani e ai loro alleati asiatici perché è una nazione sui generis,
che sta per completare la lunga corsa al nucleare. Ma non è la prima
né l’ultima nazione a conquistare questo traguardo. Anche il Pakistan, ha l’arma nucleare
ed è certo che non è una nazione “allineata” con l’occidente ma uno
stato dove la tensione interna è altissima, dove, guarda caso, si
nascondeva Osama bin Laden.
Una nazione, poi, piagata dagli assassinii politici, ultimo quello di Benazir Bhutto. E il Pakistan non solo ha la sua bella bomba atomica, ma ha esportato la tecnologia
per attuarla nella Corea del Nord e negli altri paesi dell’asse del
Male. Non è più pericoloso il Pakistan? Eppure dai tempi di George Bush, nessun presidente americano ha puntato il dito contro il Pakistan.
Negli anni Novanta, quando il Pakistan divenne una potenza nucleare,
gli vennero imposte delle sanzioni monetarie che l’Arabia Saudita
regolarmente pagò per l’alleato musulmano. L’amministrazione Clinton
mantenne relazioni gelide con il Pakistan che intanto esportava la
tecnologia nucleare in paesi come la Libia e la Corea del Nord. Dopo l’11 settembre
i neo-conservatori di Bush “fecero pace” con il Pakistan perché gli
serviva come appoggio per intervenire in Afghanistan. Da allora nessuno
parla dell’atomica pakistana.
Chi ci dice che la bomba sia più al sicuro in Pakistan che nella Corea del Nord?
Le provocazioni di Kim Jong Un ci offrono un panorama sulle capacità militari della Corea del Nord, che non abbiamo a portata di mano per quanto concerne il Pakistan. Ma ciò che conta è il ruolo che la bomba riveste nella politica estera di queste nazioni. E le motivazioni del giovane leader nordcoreano sono le stesse dei governi pakistani: l’arma è un deterrente per mantenere in vita il proprio sistema contro un nemico storico: la Corea del Sud per Kim e l’India per il Pakistan.
Anche per l’Iran i motivi sono identici.
A proposito, non si sa più nulla sugli accordi stipulati dal
presidente Obama, l’Iran ha riavuto i suoi miliardi congelati ma la
prova che ha rinunciato al programma di proliferazione dell’atomica non
è mai arrivata. Donald Trump ha fatto tanto baccano
su twitter poi ha lasciato cadere la patata bollente. Morale, l’Iran la
sta costruendo questa bomba oppure no?
In ultima analisi, la paura generata da un Kim Jong Un
con i dito sul bottone rosso del nucleare è completamente irrazionale.
Tanti sono i leader che potrebbero schiacciare un bottone analogo. Se
messo alle strette, si ripete, Kim ci farà saltare tutti in aria. Ma,
seguendo questa logica, non si potrebbe dire la stessa cosa della leadership iraniana o pakistana?
O addirittura di tutti coloro che hanno l’atomica? Se la Francia si
trovasse di fronte alla certezza dell’annientamento della propria
nazione, certo non getterebbe le armi in terra, incluse quelle nucleari.
Ma questo non è uno scenario probabile perché il disordine mondiale ha un suo equilibrio che proprio la proliferazione dell’atomica ha prodotto. Nessuno spingerà una potenza atomica nell’angolo lasciandogli solo l’opzione apocalittica.
Anche con una diplomazia decimata e agonizzante, difficilmente si arriverà alla guerra nucleare.
di Loretta Napoleoni | 17 settembre 2017
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