A quasi sette anni dal fallimento di Bear Stearns, la Sarajevo della Grande Recessione,
mentre l’economia globale arranca su un impervio sentiero di
normalizzazione, la coltre di silenzi ufficiali non riesce a ovattare
sussurri e grida provenienti dai grattacieli di Shanghai e dai corridoi di Pechino su un “sistema bancario ombra”,
composto da trust companies (fiduciarie) opache, senza controlli e
malgestite. Dato che i depositi bancari offrono tassi irrisori perché
compressi dalla Banca centrale, queste fiduciarie promettono rendimenti
allettanti in tempi di inflazione persistente.I fondi – raccolti da risparmiatori convinti di godere di garanzie statali
– spesso finanziano palazzinari in bolletta, aziende pubbliche alla
canna del gas (ad esempio miniere di carbone o acciaierie) e
direttamente o indirettamente autorità locali disinvolte. Sul
fenomeno governo e Banca centrale avevano sostituito saracinesche alle
palpebre, illudendosi che la crescita impetuosa, a cui le fiduciarie
fornivano propellente, avrebbe mondato le conseguenze nefaste. In
cinque, ruggenti, anni il debito totale in Cina, secondo l’agenzia Fitch,
si è gonfiato fino a raggiungere il 220 per cento del Pil a fine 2013,
dal 130 per cento nel 2008, un aumento che in valore assoluto risulta pari all’intero settore bancario degli Usa. Metà di questo aumento andrebbe attribuito alla finanza ombra.
Purtroppo gli steroidi macroeconomici da investimenti sballati (pubblici o privati) si sciolgono sempre in una valle di lacrime e la Cina del laissez-faire comunista non fa eccezione. Persino il Fmi (di solito tenero con la Cina) ha avvertito che gli attivi marcescenti vanno rimossi e le catene di Sant’Antonio spezzate. Le autorità da qualche mese hanno intrapreso l’ingrato compito. Seguendo il dettato maoista sul colpirne uno per educarne cento hanno lasciato fallire alcuni pesci piccoli, effetti scenici ribattezzati “Potemkin defaults” dalle avanguardie della blogosfera che hanno sostituito quelle del proletariato. Gli squali grossi invece vengono neutralizzati con cautela e circospezione attraverso salvataggi coordinati, ad evitare un corto circuito stile Lehman. Inoltre i nuovi investimenti nelle trust companies non possono essere più utilizzati per pagare i rendimenti di quelli vecchi e ad ogni investitore va assegnato un conto segregato che fornisca dettagli sulle singole esposizioni piuttosto che il riferimento opaco ad un portafoglio di titoli malamente assemblato.
Questo desiderio di ramazza però confligge con un vincolo psico-politico pavloviano. Appena la crescita del Pil si sgonfia verso il 7% per cento (cifra ufficiale, quella reale sarebbe sotto il 5) ai ministri cinesi appare minaccioso lo spettro delle rivolte.
Quindi parte un’altra ondata di credito allegro che genera altri
prestiti dubbi, altri immobili vuoti, altra capacità industriale
obsoleta, altre infrastrutture costose. A fine 2013 si stimava a 1800
miliardi di dollari il totale degli attivi delle fiduciarie. Per quanto
la cifra sia astronomica, la Cina, oltre a misure emergenziali di
politica monetaria, mantiene riserve valutarie per 4 mila miliardi di
dollari e potrebbe in teoria affrontare una crisi di questa portata. Ma
il grosso di queste riserve sono detenute in titoli del debito pubblico
Usa. Se da Pechino a New York può deflagrare il battito d’ali di una farfalla, figuriamoci una tale batosta.Purtroppo gli steroidi macroeconomici da investimenti sballati (pubblici o privati) si sciolgono sempre in una valle di lacrime e la Cina del laissez-faire comunista non fa eccezione. Persino il Fmi (di solito tenero con la Cina) ha avvertito che gli attivi marcescenti vanno rimossi e le catene di Sant’Antonio spezzate. Le autorità da qualche mese hanno intrapreso l’ingrato compito. Seguendo il dettato maoista sul colpirne uno per educarne cento hanno lasciato fallire alcuni pesci piccoli, effetti scenici ribattezzati “Potemkin defaults” dalle avanguardie della blogosfera che hanno sostituito quelle del proletariato. Gli squali grossi invece vengono neutralizzati con cautela e circospezione attraverso salvataggi coordinati, ad evitare un corto circuito stile Lehman. Inoltre i nuovi investimenti nelle trust companies non possono essere più utilizzati per pagare i rendimenti di quelli vecchi e ad ogni investitore va assegnato un conto segregato che fornisca dettagli sulle singole esposizioni piuttosto che il riferimento opaco ad un portafoglio di titoli malamente assemblato.
p.s.
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