Fonte: Il Fatto Quotidiano del 27/01/2015 a firma di Andrea Boitani* e Massimo Bordignon** (lavoce.info)
Chi ha ‘votato’ per Syriza. E chi no
Certo,
grazie all’euro, il mondo è diventato un posto ben singolare. Un
partito di sinistra estrema prende il potere in Grecia, e di fatto la
sua vittoria viene salutata positivamente da vari ambienti finanziari e
accademici “main stream”, oltre che da governi e partiti politici
europei che più lontani di così sul piano ideologico da Alexis Tsipras
non potrebbero essere. Perfino il Financial Times – un giornale
non esattamente noto per le sue posizioni filo-marxiste – ha di fatto
caldeggiato la vittoria di Syriza, così come un serissimo economista dell’università di Oxford, per non dire di Thomas Piketty che ha affermato: “Syriza vuole costruire un’Europa democratica, che è proprio quello di cui tutti abbiamo bisogno”.
Specularmente, alla faccia del riserbo e della correttezza
istituzionale che dovrebbe caratterizzarne l’azione, il primo a
esprimersi ufficialmente in merito ai risultati dell’elezioni greche
non è stato un politico, ma il governatore della Bundesbank, Jens
Weidmann, ovviamente solo per dire che le elezioni greche non cambiano
nulla e che pacta sunt servandada qualsiasi governo. Un altro
elemento paradossale è che tutto ciò c’entra relativamente poco con la
Grecia e anche con la questione della fondatezza o meno della richiesta
di Syriza di ristrutturare il debito. Su questo punto, e sul come
eventualmente realizzarlo sotto il profilo tecnico, le opinioni
divergono ancora.
La spiegazione è un’altra. La verità è che a parte
un gruppo di inossidabili (ma assai influenti in patria) economisti
ordo-liberali tedeschi, la stragrande maggioranza degli accademici e
degli ambienti economici internazionali, compresi i principali governi
dei paesi occidentali non appartenenti all’euro, si sono oramai
convinti che così com’è l’Unione monetaria europea non va da nessuna
parte, salvo che verso l’abisso. La filosofia dell’austerity si è
tradotta in politiche fiscali pro-cicliche (cioè eccessivamente
restrittive) in un momento in cui ci sarebbe bisogno di tutt’altro,
come non si stanca di ripetere Mario Draghi. È un’Unione monetaria
sempre sull’orlo della deflazione e della recessione, che in due anni
(2013-2014) ha buttato via circa il 10 per cento del suo Pil aggregato e
lasciato a casa molti milioni di lavoratori in più di quanti
“necessari” a mantenere il tasso di inflazione al 2 per cento (oggi
siamo allo 0,3 per cento). Oltretutto, un’Unione monetaria sempre a
rischio di dissolversi al suo interno, con impatti devastanti sul resto
del mondo, non conviene a nessuno. La piccola Grecia, con tutti i suoi
problemi e anche le sue responsabilità, è diventata dunque il simbolo
di una modifica possibile nella conduzione della politica economica
europea.
Le difficoltà di un compromesso possibile
Ma
proprio questo è il problema. Ci sono ovvie ragioni economiche e di
buon senso per trovare un accordo tra le richieste del nuovo governo
greco, la Troika – cioè la Commissione europea, la Bce e il Fondo
monetario – e il resto dei paesi europei. Del resto, da quello che si
capisce dal programma di Syriza, le sue proposte non sono poi molto
dissimili da quelle che erano già state considerate da funzionari
dell’area euro nel 2012 e che sono più volte riemerse nella discussione
successiva, cioè la cancellazione di parte del debito e un allungamento
delle scadenze per il residuo (una sorta di piano Brady). Non sappiamo
quanto sia chiaro a qualche plaudente o preoccupato politico di casa
nostra, ma Tsipras non pretende (o almeno non pretende più e non
pretende ora) un default totale della Grecia sul debito con soggetti
esteri, quindi tutto a carico degli altri paesi europei. Default che
sarebbe invece l’ovvia conseguenza di una eventuale (ma non desiderata
da Syriza) uscita o “espulsione” della Grecia dall’euro (ammesso e non
concesso che una espulsione sia possibile).
Di fatto, nessuno
capisce davvero come la Grecia, anche con interessi artificialmente
bassi e scadenze allungate, potrà mai restituire un debito che viaggia
attorno al 180 per cento del Pil.
Ma il punto è che tutti sanno che
non si sta discutendo affatto della Grecia, e che un allentamento dei
programmi di risanamento per questo paese si porterebbe inevitabilmente
dietro una revisione delle politiche per tutta l’area, rimettendo in
discussione i capisaldi del fiscal compact europeo e di conseguenza
rilanciando l’idea di una politica espansiva, coordinata a livello
europeo, che vada oltre il fumoso piano Juncker e i piccoli passi in
merito alla flessibilità introdotti dalla Commissione europea.
Sul
piano politico, questa revisione toglierebbe il fiato ai vari movimenti
anti-euro nei paesi del Sud d’Europa, ma ne amplificherebbe i toni nel
Nord e soprattutto in Germania, una cosa che non è chiaro se Angela
Merkel può permettersi, dopo aver già dovuto ingoiare il Quantitative
easing della Bce e dovendo fronteggiare i possibili veti della Corte
costituzionale tedesca. Dunque, la partita è aperta e non è affatto
detto che un compromesso, per quanto ragionevole sarebbe sperarlo, alla
fine si trovi.
Resta il rammarico che tutto questa complessa
battaglia politica ed economica avvenga sulle spalle di un paese che ha
già pagato duramente per il sostegno dell’ortodossia economica
europea.
p.s.
due importanti voci del mondo
economico, quello serio, e delle università che non aprono bocca solo
per dargli aria ma sanno vedere oltre le luci, i fumi, i nani e le
ballerine.... non si può NON ascoltarli.
Nessun commento:
Posta un commento