questo è l'articolo che nel precedente post mi suggeriva jigen: a me
pare che vedano la stessa cosa da diversi punti di vista... fate voi
da Limes online del 7/7/2015
L’Europa tedesca è altrettanto realistica dell’acqua secca o del legno ferroso. Lo conferma la tragedia greca, di cui stiamo sperimentando solo le prime battute.
Pur di preservare la sua stabilità la Germania ha esportato instabilità nel resto d’Europa,
a cominciare dalla periferia mediterranea. Sotto il profilo economico e
monetario, propugnando una ricetta unica – la propria – per contesti
radicalmente diversi, sicché senza le pressioni americane e il pragmatismo di Mario Draghi l’Eurozona sarebbe già saltata da tempo sotto i colpi dell’austerità.
Sotto il profilo geopolitico, rifiutandosi di assumere ogni responsabilità nelle crisi del Mediterraneo e lasciando che lo scontro sull’Ucraina
fosse appaltato ai baltici, per i quali la distruzione della Russia è
obiettivo appetibile. E adesso lasciando andare Atene alla deriva.
Smottamento economico, sociale e geopolitico che infragilisce l’euro
e completa la destabilizzazione delle nostre frontiere mediterranee
dopo la disintegrazione della Jugoslavia (incentivata dalla coppia
austro-tedesca) e della Libia (follia franco-britannica), per tacere del Levante in fiamme e del solipsismo turco.
Certo, il cuore tedesco del Vecchio Continente tiene.
Ma al prezzo della liquidazione dell’idea stessa di Europa. Perché
questo è il verdetto della crisi greca, qualunque sia il suo esito. Ci
siamo scoperti tutti avvinghiati al presunto interesse particolare.
Con la massima potenza economica continentale incapace di dirimere la
più acuta crisi mai vissuta dalla scoppiatissima famiglia comunitaria. E
nemmeno tanto desiderosa di farlo, nell’illusione che la Grexit sia
faccenda greca, destinata a risolversi da sola incentivando
l’autoesclusione di Atene dall’Eurozona. Dopo di che la vita continuerà
come prima, meglio di prima. Ma poi, fino a quando Berlino potrà
considerarsi immune dalle crisi che ha contribuito a suscitare, non
fosse che per neghittosità?
Molti in Germania ambiscono a trasformarsi in Grande Svizzera,
con i ponti levatoi alzati. Fisicamente e mentalmente. Si sentono
protetti dalle alte mura della propria invidiabile fortezza, che esporta
deflazione e importa liquidità grazie alla potenza commerciale,
surrogando gli stagnanti mercati europei con la Cina. Già la Svizzera non è più un’isola felice, figuriamoci se può diventarlo la Germania.
La galoppante deriva europea nasce da un equivoco.
Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si
convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita:
toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che
riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la
Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra
altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie.
Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro.
Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e
monetaria. Anche qui mostrando la corda delle sue fissazioni
ordoliberiste. Nella tempesta scatenata 7 anni fa dalle dissennatezze
della finanza privata americana, Berlino ha reagito infliggendo ai
partner lezioni di ortodossia rigoristica dal forte retrosapore
ideologico. L’austerità come bene in sé, sempre e dovunque. Come scrive
Hans Kundnani, direttore delle ricerche all’European Council on
Foreign Relations, nel suo The Paradox of German Power di prossima pubblicazione presso Mondadori, l’instabilità diffusa dalla Germania in Europa è figlia di «una nuova forma di nazionalismo tedesco, basato sulle esportazioni, sull’idea di ‘pace’ e sul rinnovato sentimento della ‘missione’ germanica».
Testimoniato dalle acrobazie geopolitiche di Angela Merkel, che l’hanno vista talvolta allinearsi con Pechino, Mosca,
Brasilia e Pretoria, oltre che dal montante antiamericanismo nella
società tedesca. Con ciò mettendo in discussione la stessa appartenenza
della Bundesrepublik a ciò che resta dell’Occidente.
Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca
che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio
Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto
egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse
qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee
degne di appartenere all’Euronucleo – la moneta delle “formiche”
evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro
delle Finanze non ha mai cessato di pensare.
Insieme, restiamo sufficientemente corrivi da rinunciare
a ridisegnare l’unione monetaria in nome di un’idea politica di Europa,
così condannandoci alla marginalità nel farraginoso processo
decisionale comunitario. Francia compresa, perché fin troppo consapevole
della sua vulnerabilità sui mercati finanziari, nel momento in cui
osasse smarcarsi dall’ombra lunga della Germania.
Sui funesti errori che hanno portato la Grecia nel burrone dal quale difficilmente potrà riemergere nei prossimi anni, inutile diffonderci. Troppi, troppo evidenti,
troppo ripetuti. Purché questo non diventi un alibi per accomodarci
alla deriva greca (e cipriota) verso lidi mediorientali o
russo-ortodossi. L’impresa sarà improbabile, ma vale la pena tentarla.
Aiutare Atene a non affogare, dismettere i panni del moralismo e della facile censura, per sporcarsi le mani con quel solidale pragmatismo che può almeno alleviare la vita quotidiana di un popolo alla disperazione.
La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica.
Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea.
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