martedì 2 agosto 2016

Banche, referendum, guerra e Rai: ecco le 15 bugie di Renzi (Marco Travaglio e Stefano feltri)

Il premier mente a “Repubblica”. Dai pasticci su Mps ed Etruria, agli effetti miracolosi della “riforma” Boschi, all’Isis.Che il premier Matteo Renzi avesse deciso di sparire dalla scena mediatica per tutta l’estate, secondo la “strategia del sommergibile” suggerita dai suoi consiglieri, non lo poteva credere nessuno. Ma si sperava almeno in una moratoria, magari parziale, delle bugie propagandistiche. Speranza andata delusa ieri, con la sua intervista-fiume a la Repubblica.
1. Montepaschi. “Ci siamo mossi per dare una risposta tempestiva: la proposta di Atlante ripulisce finalmente e per sempre la questione crediti deteriorati”. Che il problema sia risolto è tutto da dimostrare. La complessa operazione finanziaria che coinvolge il fondo Atlante per liberare Mps da 9,2 miliardi di crediti in sofferenza è soprattutto la risposta a un errore del governo. A novembre, tentando di risolvere la crisi di PopEtruria e altre tre banche, un decreto ha illuso il mercato di poter recuperare 18 euro ogni 100 prestati ai debitori in sofferenza. Questo ha aperto all’improvviso un buco nei bilanci di molte banche che usavano valutazioni molto più ottimistiche. Ora Mps dovrebbe cedere le sue sofferenze a 33 euro anziché a 18, cioè a quasi il doppio. Atlante e Mps devono riuscire a far cambiare opinione al mercato, rimasto fermo al prezzo indicato dal governo. E non è detto che ci riescano. Non si è mai vista un’operazione di mercato a prezzi fuori mercato.
2. Jobs Act. “Dal 2015 abbiamo cambiato verso e invertito la rotta. Il segno del Pil è tornato positivo, il Jobs Act ha portato 599mila posti di lavoro in più e la massa dei crediti deteriorati finalmente cala”. Le sofferenze nette delle banche continuano a crescere, dagli 84 miliardi di aprile agli 85 di fine maggio (ultimo dato Abi). Come ha osservato la Reuters, nel 2015, con il Jobs Act e l’economia in crescita, sono stati creati 110.000 nuovi posti di lavoro. Nel 2014, senza il Jobs Act e con l’economia nel terzo anno di recessione, ne erano stati creati 168.000.
3. Banche/1. “Con Padoan abbiamo agito all’unisono, incoraggiando una soluzione di mercato. La Bce e il Cda del Monte dei Paschi hanno fatto poi la scelta che hanno ritenuto più solida. A me interessa proteggere il correntista e il risparmiatore”. Per mesi Renzi e il governo hanno fatto scrivere ai giornali amici di essere vicinissimi a una “soluzione di sistema” concordata con la Commissione europea, tramite la ricapitalizzazione delle banche con soldi pubblici e senza chiedere sacrifici ai risparmiatori. Poi di quel negoziato si sono perse le tracce, visto che l’Italia non stava ottenendo nulla. Allora Renzi ha iniziato a presentarsi come sostenitore di una soluzione di mercato, con cessioni di crediti in sofferenza a prezzi stracciati e Mps consegnata di fatto alla banca americana JP Morgan. Visto che l’esito finale è stato diverso, ora prende le distanze. Se le Borse reagiscono male o se tra un anno Mps sarà di nuovo a rischio, nessuno dovrà dare la colpa a lui (che per mesi ha lasciato degenerare la crisi inseguendo soluzioni inapplicabili).
4. Banche/2. “Noi come governo abbiamo messo le mani in una situazione difficilissima con un obiettivo chiaro: via la politica dalle banche”. È stata la politica a scaricare buona parte del peso delle crisi di alcuni istituti sul resto del sistema bancario, forzando quelli sani a farsi carico – anche tramite i contributi al fondo Atlante – dei disastri di PopVicenza, Etruria e Veneto Banca.
5. Etruria. “Su Banca Etruria noi siamo stati di una severità esemplare arrivando al commissariamento e alle doppie sanzioni. Ma chi conosce Arezzo sa che le cause di quella vicenda hanno le radici in un passato lontano e sono ben diverse da come sono state raccontate”. Pier Luigi Boschi, padre della ministra Maria Elena, era membro del Cda e fu promosso vicepresidente subito dopo che la figlia entrò nel governo e che Etruria fu commissariata da Bankitalia (non dal governo, come fa credere Renzi). E fu Bankitalia, non il governo, a sanzionarlo. Dove sarebbe la severità del governo? Della commissione di inchiesta promessa da Renzi per indagare sulla responsabilità di banchieri e vigilanti nel disastro di Etruria e altre tre banche, si sono perse le tracce.
6. Tasse, Monti e Letta. “Ci troviamo a fronteggiare questo meccanismo atroce delle clausole di salvaguardia perché i governi Letta e Monti hanno disseminato di trappole le vecchie finanziarie, ma seguiremo la linea già tenuta fin qui scongiurando un salasso da 15 miliardi, dunque l’Iva non aumenterà”. Su un totale di 16,8 miliardi di clausole di salvaguardia ”disinnescate” nel 2016, 3,3 miliardi erano stati inseriti dal governo Letta nella legge di stabilità 2014. Il resto erano clausole inserite dal governo Renzi nel 2015, nell’ipotesi di una bocciatura europea (poi puntualmente arrivata) del sistema del “reverse charge” e per compensare i mancati tagli alla spesa. Renzi ha neutralizzato gli aumenti di tasse minacciati da lui stesso e ha spacciato il tutto per una riduzione della pressione fiscale.
7. Referenzum. “Personalizzare questo referendum contro di me è il desiderio delle opposizioni, non il mio…. Parlerò solo e soltanto di contenuti, tenendomi alla larga rigorosamente da tutti i temi del dopo”. Ma è vero l’opposto: è stato Renzi a dichiarare ripetutamente che, in caso di vittoria del No, si sarebbe dimesso da premier e addirittura ritirato dalla vota politica (“vado a casa”), facendo cadere il governo e mandando l’Italia alle elezioni anticipate (cosa, quest’ultima, che non è nei suoi poteri, ma in quelli del capo dello Stato). Nessun esponente dei Comitati del No e nessun leader dell’opposizione, prima di questo suo refrain, aveva mai chiesto le sue dimissioni in caso di sconfitta al referendum. E neppure dopo, a parte Salvini. Anzi, sia il pentastellato Luigi Di Maio sia gli oppositori interni al Pd, da Bersani a D’Alema, hanno dichiarato che Renzi non deve lasciare se vince il No. La personalizzazione del referendum, insomma, è tutta sua. E i “temi del dopo” sono tutti suoi.
8. Casta. “Se vince il sì riduciamo il numero dei politici”. Attualmente, in Italia, vivono di politica 1 milione e 100 mila persone. Se vince il Sì, saranno appena 215 in meno, con il Senato smagrito da 315 a 100 membri. Una riduzione irrisoria, statisticamente irrilevante.
9. Regioni. “Se vince il sì riduciamo le competenze delle regioni”. Le regioni a statuto speciale, cioè i principali centri di spreco fra gli enti territoriali, non vengono neppure sfiorate dalla riforma, che anzi aumenta lo squilibrio fra queste e quelle ordinarie. Le quali perdono – insieme ad alcune competenze assurde previste dal Titolo V riformato nel 2000 – poteri fondamentali sul controllo delle grandi opere inquinanti, del territorio, dell’ambiente e della salute pubblica, che vengono incredibilmente riaccentrati in mano allo Stato, anzi al governo. Con meccanismi confusi che innescheranno infiniti contenziosi. E con tanti saluti a un sano federalismo.
10. Sì e No. “Se vince il no rimane tutto come adesso”. Se vince il No, rimane la Costituzione del 1948 che il Pd, nel suo ultimo programma elettorale del 2013, definiva “la più bella del mondo”. Si evitano i guasti di una “riforma” pasticciata, scritta coi piedi, piena di castronerie, tendenzialmente autoritaria, imposta da una minoranza camuffata da maggioranza grazie a una legge elettorale illegittima. E nulla e nessuno impediranno al Parlamento, finalmente liberato dal giogo del governo, di varare una riforma più ridotta, democratica, partecipata e condivisa delle (poche) parti della Carta meritevoli di aggiornamento, secondo le proposte migliorative avanzate dai più illustri costituzionalisti italiani, auditi dalla commissione Affari costituzionali del Senato e poi bellamente ignorati da Renzi, Boschi e Verdini.
11. Stabilità. “Se vince il sì ci saranno governi più stabili”. L’unico aspetto della “riforma” costituzionale che può influire sulla stabilità dei governi è il voto fiducia riservato alla sola Camera (eletta con l’Italicum, che assegna il 54% dei seggi al primo partito) e non più anche al Senato (nominato dai consigli regionali, con maggioranze variabili e imprevedibili). Ma era così già nell’Italia risorgimentale post-1848, con lo Statuto Albertino, e l’instabilità dei governi era all’ordine del giorno, almeno fino a Mussolini. La stabilità dei governi non dipende dal numero di Camere che votano la fiducia, ma dalla coesione delle maggioranze. La Repubblica italiana ha avuto 63 governi in 70 anni, e solo due (quelli di Romano Prodi) sono caduti per il diniego della fiducia in Parlamento. Tutti gli altri sono crollati in seguito a manovre extraparlamentari. Nessuno dovrebbe saperlo meglio di Renzi, che andò al governo nel 2014 rovesciando Letta fuori dal Parlamento: senza quella colpo di palazzo, Letta sarebbe ancora in carica, a prescindere da quante camere votino la fiducia. In compenso il governo Renzi avrebbe gli stessi problemi di instabilità anche col nuovo sistema, cioè col voto di fiducia della sola Camera e il premio di maggioranza al primo partito (senza più il supporto dei centristi e di Verdini): la minoranza Pd che gli vota contro su molti provvedimenti ammonta a ben più dei 24 seggi di maggioranza (340 in tutto, in una Camera di 630 deputati col quorum minimo dei 316) garantiti dal premio dell’Italicum.
12. Contenuti e paure. “Sarà una bellissima campagna elettorale sui contenuti, non sulle paure”. Ma finora Renzi, Boschi, Napolitano & C., anziché puntare sui balsamici contenuti della loro “riforma”, hanno speso tutto il loro tempo a tentare di spaventare gli italiani con i presunti scenari apocalittici che aprirebbe una vittoria del No: “l’Italia tornerà nella palude”, “sarà ingovernabile”, “il paradiso degli inciuci e dell’instabilità”, “meno sicura contro il terrorismo”, “l’Europa non ci filerà più”, “risalirà lo spread”, “nessuna riforma per altri 30 anni”. Di contenuti parlano quelli del No, anzi ne parlerebbero se avessero voce e spazi in tv.
13. Rai/1. “Io non ho messo il naso in nessuna nomina Rai e non intendo farlo adesso. Abbiamo scelto come governo un manager qualificato come Campo Dall’Orto, adesso tocca a lui e alla sua squadra”. Ma Renzi ha messo il naso eccome, in base alla sua “riforma” della Rai che perpetua la Gasparri (il governo proprietario dell’azienda), tant’è che lui stesso deve ammettere di aver nominato il dg Campo Dall’Orto, suo vecchio amico e sodale di Leopolda, poi promosso amministratore delegato con pieni poteri (sempre grazie alla “riforma” Renzi), il quale ha nominato altri amici di Renzi. E ha rimosso o sta per rimuovere i giornalisti attaccati da Renzi&C.: da Massimo Giannini (Ballarò) a Bianca Berlinguer (Tg3).
14. Rai/2. “Il paradosso è che noi non mettiamo bocca nelle scelte e siamo giudicati responsabili per tutto ciò che accade”. Se la Rai è del governo, è ovvio che il governo ne risponda. Per dirne una, il governo – checchè ne dica – era perfettamente al corrente dei superstipendi di dirigenti e consulenti. I quali hanno potuto sfondare il tetto fissato dal governo Renzi di 240mila euro, grazie a una deroga alle società che emettono bond concessa da un decreto dello stesso governo Renzi.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 01/08/2016.

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