Fonte: Il Fatto Quotidiano Paolo Martini Ambiente & Veleni - 9 Ottobre 2019
Le
grandi tragedie possono insegnare tante cose, eppure sembra che non
insegnino nulla. Anche quando se ne parla tanto, e nemmeno troppo a
sproposito, come è successo con la diga del Vajont: la lunga voce di Wikipedia Italia contempla persino un “Capitolo 7. Nei media”, con sei paragrafi, dal cinema ai fumetti.
È
il sunto specialistico che chiude la dettagliata ricostruzione online
della tragica vicenda, dal progetto della gigantesca diga sul torrente
Vajont, sotto le Dolomiti tra Veneto e Friuli, al tragico crollo del sovrastante monte Tòc nel bacino artificiale, dove si formò un’onda a tre punte alta 250 metri. Gli esperti paragonarono all’atomica di Hiroshima la bomba d’acqua che causò 1917 morti, la distruzione di Longarone e di varie frazioni dei comuni di Erto e di Casso.
“Di
queste case”, per dirla con il Poeta, “non è rimasto che qualche
brandello di muro”. E dei tanti che ci corrispondevano? Dal punto di
vista giornalistico e della memoria, il Vajont è un
paradosso proverbiale del nostro povero Paese. Adesso risulta chiaro a
molti il finale di partita della nostra epoca, anche grazie al movimento
giovanile dei venerdì per salvare il pianeta. Ma in quegli anni del boom economico,
la sensibilità ambientale era ben di là da venire: il Progresso, la
Tecnica, lo Sviluppo erano gli angeli del dio Denaro invocati
quotidianamente.
Quasi tutti veneravano il sistema che alcuni studiosi, come Jason W. Moore, ora chiamano “Capitalocene” (versione eco-neo-marxista del più neutro Antropocene, vedi l’ultimo numero di Jacobin Italia). Giorgio Bocca, Indro Montanelli, nonché un appassionato di montagne come Dino Buzzati,
per prendere i primi tre nomi di “signoroni grandi firme”, celiarono e
insultarono l’unica giornalista che ebbe il coraggio di denunciare
quel progetto tanto folle in un così fragile ecosistema alpino, l’ex
partigiana Tina Merlin, che fu anche autrice di vari libri. Una gran donna, vera e bella, come si vede da Laura Morante che l’ha interpretata nel film di Renzo Martinelli del 2001.
Tina era chiamata “la Cassandra del Vajont” dagli illustri colleghi cantori del Capitalocene: scriveva su l’Unità,
ancora comunista con la k, in quello scorcio tra seconda metà degli
anni Cinquanta e primi Sessanta, quando il capo del Pci era “il
Migliore”, Palmiro Togliatti, uno che aveva studiato al
Cremlino e parlava tra i primi ai consessi moscoviti. Oggi il caso
vuole che l’erede dell’ultimo grande Segretario del Pci, Enrico Berlinguer, abbia ridotto a una macchietta da talk-show Mauro Corona da Erto.
Ma, prima che Bianca Berlinguer
lo trasformasse in un tele-orco-oracolante, per rianimare gli ascolti
di Raitre, Corona faceva molto bene “solo” lo scrittore, lo scultore e
l’alpinista, grazie a un talento che porta le stigmate di quella
tragedia in cui si ritrovò appena 13enne, come ha raccontato nelle sue
toccanti pagine.
Persino Marco Paolini, che nel 1993 mise in scena con Gabriele Vacis Il racconto del Vajont. Orazione civile,
uno dei suoi capolavori, si è ormai un po’ perso via. Il maestro, dopo
averci regalato due o tre decenni di ottimo teatro di contenuto
politico, è ora lì che s’affanna sul palcoscenico in un improbabile divertissement pseudo-omerico (Il calzolaio di Ulisse), per non dire delle ben due “intemerata” sulle generazioni digitali (Tecnò filò e Numero Primo), genere cazziatone battutista ai figli troppo “Sdraiati” sul divano, da Claudio Bisio con Michele Serra.
Amen,
niente potrà mai cancellare i grandi meriti di Paolini, con una serie
di spettacoli teatrali di vibrante impegno e di rara efficacia, anche
su temi ardui come il disastro aereo di Ustica o il
programma nazista di sterminio dei minorati. Di sicuro, quella sua
Orazione civile in occasione del trentennale della tragedia di Longarone
(che fu poi riproposta in tv) ha rilanciato la memoria di una vicenda
che, se non fosse accaduta nello stesso Paese dove l’anno scorso è
crollato il ponte Morandi, si potrebbe qualificare tuttora come incredibile.
E,
per tornare un attimo a noi, al nostro ormai acclarato “inferno
planetario del tardo-capitalismo” (Moore), quel disastro di 56 anni fa
appare come un’eccezionale tragica profezia sul destino del modello unico dello Sviluppo. Con tanto di forza simbolica
della diga, ovvero dell’idea stessa di contenere e asservire l’elemento
primordiale, le acque, in una grande massa di cemento (che poi è la
sabbia reinventata dal genere umano moderno, grazie alla chimica, per
plasmare la Terra: una sorta di rovesciamento del mito religioso
sull’origine dell’uomo creato dalla polvere).
È un monito che
evoca ancora: la Natura sfregiata dalla presunzione di una Tecnica che
domina oltre ogni limite, anche sul sublime delle cime dolomitiche e di
un paesaggio immortalato da Giorgione e Tiziano; l’energia motore di un Progresso che non si deve arrestare dinanzi al rischio; il pensiero unico della Crescita
come Bene da edificare, ovvero la Verità umanistica degli Illuminati.
E, infine, l’arcana avidità dei potenti che si cela dietro tutto questo,
con l’impasto informe e oscuro di politica e interessi privati.
E
a proposito di quest’ultimo aspetto, un altro paradosso è che il
Vajont non ha quasi per nulla pesato sull’immagine politica del ministro
dei Lavori pubblici dell’epoca, Benigno Zaccagnini quando 12 anni dopo, nel 1975, al suo volto anziano e sofferente fu affidata la sorte di un impossibile rilancio morale della Democrazia cristiana.
Il mite “Zac” fu messo in campo in quanto figura intonsa di cattolico
popolare e di sinistra: era stato addirittura partigiano garibaldino a Ravenna.
Ma,
forse proprio perché erano state così azzittite le voci critiche come
Tina Merlin e dovevano ancora venire il lavoro di Paolini e la fama di
Corona, non pesò come un macigno sulla bianca verginità di Zaccagnini,
nel quinquennio da numero uno della Dc, la macchia d’essere stato il
ministro del Vajont nel governo Fanfani del 1962-63
(il primo centrosinistra), in qualche modo cioè l’autorità decisiva
anche su quella maledetta diga, peraltro proprio mentre la società
privata che l’aveva costruita era in fase di nazionalizzazione, come
tutta l’energia elettrica.
Sembra una parentesi di troppo, ostica e
superflua, questa sul vecchio “Zac”. Invece, per la legge dei corsi e
ricorsi, è un po’ la stessa storia – guarda caso – del crollo di un
famigerato ponte di Genova e di un ministro alle Infrastrutture che non alzò un dito contro Atlantia-Autostrade, Graziano Delrio, politico “mite” che viene dalla cattolicità emiliana di sinistra e dal giro stretto di quel Fanfan-Renzi
che fu il leader più potente dell’Italia vivacchiante di ieri. Non
resta che sperare che nuove Merlin, nuovi Paolini o Corona, e magari
nuovi Fridays for future riportino a tutti la memoria di quali tragedie
umane ha prodotto e produce il mantra dello sviluppo senza freni e
della libertà dei capitalisti senza controlli.
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