Fonte: Il Fatto Quotidiano del 1 10 2015 a firma di Cesare Sacchetti
L’opinione che l’euro sia una pessima idea
così come è stato concepito e realizzato sembra essere arrivata persino
alle alte sfere dei vertici comunitari. Ogni tentativo di mantenerlo
in vita a tutti i costi, ha portato con sé il peso delle drammatiche
conseguenze che i popoli europei hanno vissuto e che stanno mettendo
fine alle costituzioni democratiche fondate sullo Stato sociale, e per le quali JP Morgan
ha raccomandato il rapido superamento in una famigerata relazione sullo
stato della crisi dell’Eurozona. Sostanzialmente esistono due strade
per mantenerlo in vita: la prima è quella dell’austerità espansiva,
un ossimoro economico non più difeso nemmeno dai suoi mentori che ne
hanno negato l’efficacia e riconosciuto il fallimento; la seconda è la
creazione di un budget federale europeo che avochi a sé
i poteri fiscali degli stati nazionali e teoricamente ridistribuisca
quegli squilibri che le unioni monetarie a cambi fissi inevitabilmente
comportano. Sarebbe bastato dare ascolto al padre dei Chicago Boys, Milton Friedman che qualche anno fa in un articolo sul New York Times definì l’Europa come “un esempio di situazione sfavorevole alla creazione di un’unione monetaria.
L’Europa è composta da nazioni separate, che parlano lingue
differenti, e con diverse tradizioni culturali, dove i cittadini
provano sentimenti di lealtà e attaccamento al loro paese piuttosto che
all’idea di un mercato comune e di Europa”.
Queste le ragioni culturali che rendevano problematiche una unione forzata,
imposta ai popoli europei secondo l’unico meccanismo delle crisi di
sistema, più o meno artificiali, che fino ad oggi ne hanno reso
possibile l’attuazione. Lo stesso Mario Monti riconobbe
che senza crisi, non si ha cessione di sovranità e la difficile
contemporaneità vissuta dalla debole Ue sembra pronta per un nuovo
avanzamento, necessario per raggiungere il gradino superiore del Superstato europeo e la conseguente fine degli Stati nazione che seppur travolti dalla globalizzazione
restano ancora protagonisti sulla scena politica. Le ragioni
economiche, sulle quali rimangono avvinghiati i pochi negazionisti
dell’euro come protezione alla crisi, non permettono l’esistenza in vita
di un’unione monetaria senza i necessari riallineamenti della bilancia
dei pagamenti tra i paesi più forti in avanzo e quelli più deboli in
deficit. La Germania ha sfruttato questo enorme vantaggio competitivo,
su tutti l’enorme surplus della bilancia commerciale che rappresenta la
sua supremazia in Europa, e forse adesso potrebbe essere disposta a
concedere qualcosa alla nuova idea che percorre i corridoi di Bruxelles.
Se non altro perché la sua posizione in questo momento esce piuttosto
indebolita dallo scandalo Volkswagen, che sembra aprire delle
pericolose crepe nella leadership tedesca che fino a
poco tempo fa nessuno osava mettere in discussione. Un’apertura in
questo senso alla nuova federazione di Stati europea potrebbe essere
possibile.
Non nel modo voluto dalla Francia che inizialmente si era schierata al fianco della Germania nella sua politica di rigore dei conti,
ma che poi ha preso anch’essa la strada della crisi sistemica
approdata all’aumento esponenziale della disoccupazione e dei conti
pubblici, in un paese sempre più provato da una lenta crescita e che
forse rappresenta il malato d’Europa nascosto dalla crisi greca, non
più in grado di sostenere il peso dell’unione monetaria di cui
beneficia oramai solamente la Germania della Merkel. Di qui l’esigenza
di rifare il palazzo costruito senza fondamenta, come ha esortato a fare qualche mese fa il ministro dell’Economia francese, Emmanuel Macron, che prospetta “una rifondazione dell’Ue” e una completa cessione di sovranità
al “nuovo governo comunitario” al quale saranno trasferiti totalmente i
residui poteri degli stati nazionali in materia di politica economica.
Secondo
Macron, questa manovra sarebbe indispensabile per appianare quegli
squilibri provocati dalla moneta unica e il nuovo governo dell’eurozona
“provvederebbe a fornire assistenza ai paesi in difficoltà”, fino ad
arrivare alla creazione di un nuovo parlamento della moneta unica, al
quale parteciperebbero solamente i deputati membri dei paesi
dell’eurozona; una sorta di Camera dell’Unione Monetaria
che dovrebbe ipoteticamente essere il tramite per l’investitura
democratica del nuovo governo europeo. Non è chiaro se questi membri del
nuovo parlamento siano elettivi oppure di nomina diretta da parte dei
governi nazionali, ma sembra già riscontrabile la mancanza di
democraticità di questo processo, del quale discutono l’ex direttorio
franco-tedesco senza neppure interpellare gli altri Stati membri oppure
lanciare una piattaforma di discussione che coinvolga i popoli interessati.
Tecnicamente,
sembra piuttosto arduo arrivare a un compromesso tra gli opposti
interessi francesi e tedeschi, perché i secondi concepiscono un’unione di trasferimenti fiscali
solamente alle loro rigide condizioni che prevedono addirittura tagli
automatici alla spesa, bilanci contenuti e un rigido sistema di
sanzioni applicato a chi viola queste caratteristiche. Non è stato
citato nemmeno il ruolo che dovrebbe avere la Bce, che
attualmente è incompatibile con la possibilità di un budget federale,
dal momento che essa non può finanziare il deficit degli Stati membri
né tantomeno monetizzare il loro debito. Senza tralasciare il fatto che
queste riforme rimetterebbero completamente in discussione l’assetto
di Maastricht e dunque richiederebbero con ogni probabilità un nuovo
trattato che dovrebbe essere discusso e ratificato dai parlamenti degli
stati membri. Un processo che vuole tempo, ponderazione e attenta
valutazione parte con presupposti di pericolosa fretta e rapida
esecuzione, come accaduto nel 2011 all’alba del governo Monti con il
celebre “Fate presto”, implorato da Il Sole 24 Ore che raccomandava una rapida esecuzione delle riforme strutturali.
Sembra per il momento improbabile che le due parti arrivino a un compromesso, anche se dal nostro punto di vista la strada più raccomandabile era e resta quella del Manifesto Europeo di Solidarietà, firmato tra gli altri da Jacques Sapir e Alberto Bagnai,
che prevede uno smantellamento controllato dell’unione monetaria che
purtroppo sembra aver riportato l’Europa al clima degli anni 20,
dominato da tensioni che poi sfociarono nell’affermazione dei regimi
totalitari. La prima Maastricht nacque in fretta,
convulsamente, senza il tempo e la possibilità di considerarne
effettivamente la portata dei suoi cambiamenti e dei suoi innati limiti
strutturali economici e giuridici che sono ad oggi visibili nelle loro
devastanti conseguenze. La seconda Maastricht sarebbe il prodotto di
quell’errore, nato su ragioni di emergenzialità e sembra già portare con
sé tutte le caratteristiche che hanno determinato quel cambiamento
traumatico. Su un dato sembrano convergere gli apologeti della moneta unica
e i fautori del ritorno alle valute nazionali, ovvero sull’evidenza che
“l’attuale modello non funziona più”, come ha dichiarato il ministro
delle Finanze belga Jan van Overtveldt. L’impressione è
che ancora una volta si tenterà la strada dell’integrazione scaturita
dalle crisi, e il punto di non ritorno sulla fine delle costituzioni
democratiche sarà raggiunto, come auspicato da JP Morgan, tra i più
sinceri ispiratori di questo disegno.
Nessun commento:
Posta un commento